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Quando un editore importante pubblica un titolo dedicato a comprendere meglio una minoranza è sempre una benedizione. Se poi il libro si rivolge a un pubblico di adolescenti la benedizione è doppia e la speranza è che, fosse pure per ficcare il naso nelle questioni dei figli, lo legga anche qualche genitore di mentalità non proprio apertissima.

Per questa ragione, oltre che per una godibilità d’insieme, “Mio fratello si chiama Jessica”, che svela il suo argomento già dal titolo, merita di essere letto. Tra l’altro c’è una certa dose di ironia sull’Inghilterra alle prese con la Brexit e due genitori isterici concentrati solo sulla carriera politica della madre, che richiama parecchio la patetica figura di Theresa May (che però non ha prole).

La particolarità di questo testo, che pur animato dalle migliori intenzioni non raggiunge l’intensità di “L’arte di essere normale “, è che il narratore è il fratello piccolo e dislessico della protagonista della storia e che il suo punto di vista sulla vicenda è nello stesso tempo più solidale e più conservatore di quello dei due genitori, disposti ad utilizzare tutte le armi (dalla psichiatria agli elettroshock) per risolvere la faccenda.

Quello che rende meno bello di quanto sarebbe potuto essere questo libro è la virata improvvisa, e apparentemente poco motivata, dell’atteggiamento familiare, da cui discende una tanto mielosa quanto improbabile happy end. Inoltre nella postfazione l’editore italiano ha utilizzato una traduzione impropria, trattando al maschile anche chi – come la protagonista del libro – andrebbe considerato di genere femminile. In inglese il problema non si pone perché l’articolo “the” va bene tanto per il maschile che per il femminile, ma in italiano transgenders andrebbe tradotto sempre con “persone transgender”, proprio per evitare errori di questo tipo, che pure sono tristemente comuni anche negli organi di stampa.

 

Michele Benini

[John Boyne, Mio fratello si chiama Jessica, pp. 237, € 16, Rizzoli 2019]

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