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“Tutti sognano di poter tornare, un giorno, però
sanno che non possono sopportare due ferite: quella
di aver lasciato il proprio paese quando erano
giovani, e quella di abbandonare questa terra che li
ha accolti, e nella quale sono vissuti per tanto
tempo”.
William Salgado Escaf – Estratto da ¡Amrika Amrika! (2010)

 

Al largo del molo di Byblos, era usuale ascoltare un coro di voci all’unisono pronunciare: Amrika, Amrika! Era il grido delle popolazioni libanesi, siriane e palestinesi che volevano raggiungere il continente americano in fuga dalle guerre e dalla miseria di un Impero ottomano ormai sul punto di crollare. La nuova vita non sempre sarebbe stata facile, né l’integrazione immediata, ma sapevano che avrebbero incontrato un luogo in cui poter ricostruire una posizione nella società, lontano dai conflitti; poco sapevano della cultura e dei costumi colombiani e ancora non parlavano la lingua che per le generazioni future sarebbe divenuta indispensabile e amata come la propria d’origine.

L’appartenenza a differenti gruppi etnici, paesi e religioni provocò lo svilupparsi di rapporti a volte tesi tra le diverse comunità, appena stemperati dalla comune condizione diasporica che favoriva il sorgere di un sentimento di solidarietà che appianava, almeno in parte, le differenze.

Quando nel 1879 la destinazione prediletta, gli Stati Uniti d’America, chiuse le frontiere all’immigrazione proveniente da quelle terre, le imbarcazioni furono costrette a virare verso il
Centro e il Sud America. I processi migratori furono costanti perlomeno sino agli anni Cinquanta del Novecento anche se continuarono, seppur con minor frequenza, sino agli anni Novanta. I nuovi arrivati trovavano spesso a riceverli uno spazio dove poter vivere e i mezzi per iniziare una nuova vita.

Le comunità provenienti dal Medio Oriente si dedicarono principalmente al commercio di tessuti, alla ristorazione e alcuni arrivarono a occupare alti incarichi a livello politico ed economico.
Dal punto di vista culturale, la musica, la letteratura e il giornalismo nazionali hanno potuto godere, nel corso degli anni, di numerosi esponenti: Shakira, Luis Fayad, Meira Delmar, Raúl Gómez Jattin, Agmeth Escaf, Jorge García Usta, David Manzur e Giovanni Quessep sono solamente alcuni tra i più conosciuti.

Sebbene attualmente nei Caraibi colombiani siano rare le discriminazioni relazionate alla religione d’appartenenza, durante i primi flussi migratori fu assai difficile per le persone di fede musulmana integrarsi nella nuova società. Mentre i cristiani condividevano la religione con gli autoctoni, chi professava l’islam era spesso soggetto a una doppia discriminazione. Con l’aumento dei nuovi arrivati, si formarono piccole comunità chiuse che, poco a poco, si aprirono totalmente alla multiculturale società caraibica. Per una crudele ironia del destino, tutti, musulmani e cristiani che provenivano dall’Impero Ottomano, venivano chiamati “turchi”: ossia con il gentilizio dei loro oppressori.

¡Amrika Amrika! di Sara Harb Said racconta questa esperienza diasporica e offre un omaggio alla vita dei migranti arabi, attraverso la sua storia familiare. Quando uscì il documentario, nel 2010, la regista contava con una carriera già avviata di cineasta e documentarista e aveva ricoperto per anni il ruolo di direttrice della Cinemateca del Caribe di Barranquilla. Nel cassetto era rimasta chiusa, tuttavia, la sceneggiatura di Salwa, la Turca, un film dedicato all’affascinante vita di sua madre, la cui passione per il canto la portava, da giovane, a scappare momentaneamente dal rigido controllo familiare per cantare, sotto pseudonimo, nelle radio locali; La sua bella voce si adattava perfettamente a vari generi, in particolare al bolero e la copla, tanto in voga in quel periodo. Il progetto filmico era passato per un lungo processo di stasi e ripartite, dovute agli alti costi di produzione che richiedeva una fedele ricostruzione storica della prima metà del Ventesimo secolo.

Nel contempo, il tema dell’immigrazione aveva perso terreno nel contesto cinematografico nazionale a vantaggio di altri argomenti ed estetiche che vedevano in Víctor Gaviria il più famoso dei suoi rappresentanti. Lo spazio che il settore dedicava alle registe colombiane, a cavallo fra i due secoli, era assai ridotto, così come negli altri ambiti artistici; ciononostante durante il primo decennio del Ventunesimo secolo, riuscirono ad affermarsi alcuni nomi importanti come Laura Restrepo, Piedad Bonnett e María Mercedes Carranza, nella letteratura. Tra le pioniere non possono essere dimenticate Soledad Acosta, Marvel Moreno, Emma Reyes, Amira de la Rosa, Gabriela Samper e Camila Loboguerrero, che contribuirono notevolmente al teatro, alle lettere e al cinema colombiani.

Quando finalmente il progetto di ¡Amrika, Amrika! prese forma, Sara Harb Said si circondò di collaboratori di valore come Rodrigo Lalinde, affermato direttore della fotografia, e Jay Rodriguéz, famoso jazzista nominato ai Grammy, per la colonna sonora. Nel documentario confluiscono la passione per la buona musica e la poesia che la regista ereditò dalla madre, che le trasmise l’interesse per l’opera classica, orientale e occidentale, oltre alla conoscenza delle più celebri interpreti della canzone araba contemporanea come Umm Kulthum e Fairuz, alimentando in contemporanea una connessione speciale con la musica arabo-andalusa. Dalla figura paterna attinse il bagaglio culturale che le veniva dall’accesso illimitato alle sale di proiezione sin dalla più tenera età. Da quella significativa esperienza infantile e giovanile, carpì i piccoli e grandi segreti del mestiere dai maestri della settima arte. Salwa, resta comunque quella figura femminile che funse da esempio di vita e che le trasmise la forza e la conoscenza da cui scaturiranno le opere pubblicate in questi anni come scrittrice.

Sin da subito, Sara Harb si nutre di riviste letterarie, dei romanzi rosa che circolavano in casa, appartenenti alla madre e alla sorella, e dei gialli e noir che il padre prendeva in prestito nelle bancarelle dinanzi ai cinema. Queste fonti eterogenee contribuirono ad alimentare la sua immaginazione e la condurranno, con il passaggio alla maturità, alla lettura dei grandi classici e a prendere l’importante decisione di trasferirsi negli Stati Uniti, ad Atlanta, per studiare cinema. Dopo anni di apprendistato e lavoro sul campo, la cineasta decise di tornare nel suo paese e di dare il via alla sua produzione artistica.

¡Amrika, Amrika! costruisce un coro polifonico di voci ed esperienze che prendono forma attraverso la parola. L’amore, la nostalgia, la determinazione, l’identità, i giochi del destino, con i
successi apparentemente solidi e le perdite improvvise, sono alcune delle tracce di un discorso sfaccettato che unisce una comunità quanto mai complessa e ricca di storie da raccontare e
condividere.

I lavori di Sara Harb Said, tra i quali i bellissimi Rrom Caribe (2016) ed Ensalmo (2003), sono una mostra del valore della multiculturalità e della pacifica convivenza fra culture, nonché la prova tangibile del talento di questa pioniera del cinema colombiano, proveniente dalla regione caraibica.
È possibile vedere gran parte della filmografia di Sara Harb Said sul suo canale Youtube.

 

Massi Carta
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