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J. Manrique, Luna Latina en Manhattan, Seix Barral, 2022, Colombia.

Un evento fondamentale nella carriera letteraria dello scrittore colombiano-americano Jaime Manrique fu la pubblicazione, nel 1992, del romanzo Latin Moon in Manhattan, tradotto in spagnolo dallo scrittore bogotano Nicolás Suescún e fresco di ristampa nell’edizione di Seix Barral Colombia, che celebra il trentennale della sua pubblicazione. Il libro rappresenta uno dei primi casi di opere scritte da autori omosessuali di origini latinoamericane residenti negli Stati Uniti, in un momento in cui, come ci racconta l’autore in una recente intervista da New York, gli editori

“non avevano molto interesse a pubblicare romanzi di immigrati latinoamericani, ancor meno se gay”.

Quella mattina di metà giugno del 2022 in cui ci sentimmo per telefono, Manrique mi confessò che quando scrisse Latin Moon in Manhattan non era più tornato in Colombia da sette anni. L’opera rappresentava, quindi, il suo primo tentativo di riappropriarsi della lingua inglese attraverso la sua identità e la sua storia personale. Era uno “sfogo” e un modo per “mettere la vita in ordine”, mi assicurò con tono sincero. Alcuni personaggi, come l’amica del protagonista Santiago o la madre, sono ispirati a persone che in realtà gravitavano intorno allo scrittore ed ebbero, in alcuni casi, un ruolo importante nella sua vita.

Jaime Manrique

Jaime Manrique © Foto di Isaías Fanlo

Con le sue storie, Manrique affronta questioni controverse della letteratura gay, come il forte stigma che l’opinione pubblica aveva sull’AIDS, a causa (anche) della trasmissione per via sessuale del virus e del doloroso deterioramento fisico che precedeva la morte. I momenti di sofferenza sono narrati con delicatezza e veridicità. Il “cancro gay”, come lo chiamavano i tabloid e i medici, era un argomento tabù che non si menzionava pubblicamente. Anche gli amici di più “ampie vedute” non volevano avere molto a che fare con i cosiddetti “soggetti a rischio”: haitiani, omosessuali, emofiliaci e consumatori di eroina.

Susan Sontag scrisse che, nel caso dell’AIDS, “il nemico viene dall’esterno”. In effetti, in America Latina molti pensavano che fosse una “malattia da gringo1. Gli europei, invece, parlavano di una mutazione di un “virus di origine africana”. In ogni caso veniva “da fuori”.

In quegli anni lo stile di vita e il movimento LGBTIQ+ occidentali erano prevalentemente borghesi, maschili e bianchi nonostante la presenza di icone come Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera, entrambe attiviste del Street Transvestite Action Revolutionaries (STAR). Spesso, ricorda Manrique, per alcuni non era rimasto altro che l’isolamento, lo stigma e una tacita vergogna che impediva persino di pronunciare la vera causa della morte per timore dello scandalo.

I ricordi della giovinezza in Colombia occupano prepotentemente la mente di Santiago nella scena della morte dell’amico, come se una forte carica vitale cercasse di bilanciare la situazione drammatica:

“Gli occhi si gonfiarono, la luce in essi lampeggiò e mi fissarono con enorme intensità e veemenza. Quando ero piccolo a Bogotà e mia madre usciva la sera, usava la belladonna negli occhi, e le sue pupille si ingrandivano e brillavano; mi sentivo eccitato e spaventato allo stesso tempo, così erano gli occhi di Bobby, dilatati e infossati in un volto che già invocava la morte. Tuttavia, gli occhi erano l’unica parte del suo corpo ancora viva”. (Manrique, 1992, p.71)

L’infanzia e l’adolescenza hanno sfaccettature ambivalenti: fasi di inquietudine e terrore, ma, allo stesso tempo, rifugio e luogo di libertà. Da un lato il mondo maschilista, chiuso e violento degli uomini di famiglia in campagna; dall’altra il mondo delle zie, che l’autore ha definito, nella nostra conversazione telefonica, un asse di relazioni significative, basato sul rispetto per le sue inclinazioni e per i suoi bisogni letterari ed emotivi. Le zie facevano da controparte alle “scene da cowboy”, intrise di brutalità e di terrore, alle quali “non riusciva ad adattarsi molto bene”.

Attraverso il personaggio di Gene, nipote di Santiago, lo scrittore descrive un’adolescenza molto diversa dalla sua e rivela un volto meno gradevole dell’immigrazione colombiana negli Stati Uniti: il narcotraffico e i loschi affari di alcune famiglie di alto rango, come quella di Paulina e Claudia Urrutia, l’amica lesbica del protagonista, con cui la comunità lo incoraggia a sposarsi.

La luna latina a Manhattan

La luna latina a Manhattan di J. Manrique / Seix Barral

Jaime Manrique ci racconta la vita di un immigrato omosessuale latinoamericano che si muove tra le periferie di una Times Square decadente, di fine secolo scorso, ancora abitata da personaggi memorabili come Salsa Picante, Rebeca, Mrs O’Donnell e Reinhardt, che la rendono più umana e accattivante. Il gatto Mr O’Donnell spesso ruba la scena ai personaggi umani.

Oltre le mura dell’appartamento dove si alternano drammi e piaceri di Santiago, c’è una New York che, lungi dall’essere un semplice sfondo per gli eventi, è anche il vero protagonista del romanzo. Una città che, come dice Manrique nel suo Eminent Maricones (1999), ha accolto talenti del calibro di Federico García Lorca, Manuel Puig e, per un breve periodo, Pedro Lemebel e Pier Paolo Pasolini. Lo scrittore cubano Reinaldo Arenas, all’inizio degli anni Ottanta, la descriveva come una megalopoli in continua trasformazione:

New York non ha tradizioni, non ha una storia; non ci può essere storia dove non esistono ricordi a cui aggrapparsi, perché la città stessa è in continuo mutamento, in continua costruzione, per innalzare nuovi edifici; dove ieri c’era un supermercato, oggi c’è un negozio di frutta e verdura e domani ci sarà un cinema; più tardi diventerà una banca. La città è un’enorme fabbrica senz’anima, senza un posto dove accogliere il passante che vuole riposarsi; senza un posto dove ci si possa semplicemente fermare senza pagare un prezzo in dollari per la boccata d’aria che si respira o per la sedia quando facciamo una pausa (p. 332-333)2

Un decennio dopo, non sembra essere cambiato molto, considerando il modo in cui Manrique descrive New York nel primo paragrafo del romanzo:

Dopo aver lasciato Manhattan, la metropolitana numero 7 diventa sopraelevata e attraversa un paesaggio di viuzze abbandonate, edifici fatiscenti e, più in là, un mucchio di brutte fabbriche che lanciano al vento pennacchi di fumo velenoso dai colori sgargianti. Mentre la metropolitana entra nel Queens, i grattacieli di Manhattan sembrano, in lontananza, monumenti di un luogo incantato, la vecchia Baghdad forse, o anche la Terra di Oz. (…) Quello che ho potuto osservare in quegli anni è che mentre il Queens era diventato prospero e arrivista, New York City sembrava sempre più la capitale di un paese del terzo mondo.2 (Manrique, 1992, p. 15)2

Il sentimento di straniamento che si percepisce in alcuni frammenti del libro sembra attenuarsi nel rapporto del protagonista con la comunità colombiana e con la figura della madre, con cui intrattiene una relazione ambivalente, alternando amore e ostilità a causa della sua eccessiva tendenza al controllo. “Quanto più mi avvicinavo a casa di mia madre, tanto più mi sentivo colombiano”, afferma il giovane tra le pagine del romanzo.

La bellezza di Latin Moon a Manhattan non risiede solo nell’originalità dei suoi temi e nel suo contributo alla letteratura LGBTIQ+ latinoamericana, ma anche nell’eccellente padronanza dell’inglese, appreso come seconda lingua. La lingua può essere un mezzo politico e un ponte culturale che permette alle comunità di origine latinoamericana di esprimere pienamente tutta la complessità di un’identità liminale, “in between”, come suggeriva lo studioso Homi Bhabha.

Manrique è stato talvolta ingiustamente accusato di aver “tradito” la propria cultura pubblicando gran parte della sua opera in inglese. La comunità messicana lo chiamerebbe un pocho3. A tal proposito, Gloria Anzaldúa si domandava quale risorsa restasse alle persone che non possono identificarsi completamente né con lo spagnolo né con l’inglese standard, se non creare una lingua propria. Le opere letterarie di Jaime Manrique cercano un equilibrio fra lingua delle radici, lingua elettiva e lingua del desiderio, che si alternano nei suoi testi – in alcuni casi, come Eminent Maricones4, sin dal titolo:

“Ho scelto un titolo bilingue perché riassume quello che sono: uno scrittore bilingue e biculturale – e l’ho scelto per il valore escludente che acquisiscono queste due parole messe insieme”.

L’opera di Jaime Manrique continua ad essere un riferimento prezioso per le persone LGBTIQ+, le donne colombiane e i migranti biculturali che devono affermare quotidianamente entrambe le identità in una società non sempre ricettiva alle loro istanze.

 

Massi Carta
©2023 Il Grande Colibrì
immagine: elaborazione da copertina di Luna Latina en Manhattan di J. Manrique / Seix Barral

 

  1. Termine con cui i latinoamericani si riferiscono agli statunitensi. Può avere un valore dispregiativo
  2. Traduzione non ufficiale
  3. Espressione usata per i messicani che non riescono a parlare fluidamente lo spagnolo.
  4. Froci eminenti

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