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Stavamo chiacchierando al tavolino di una polibirra, ovvero un conviviale ritrovo per poliamorosi o non-monogami etici, che dir si voglia. Il discorso è caduto sul come terminare la serata, e tra le ipotesi c’era quella di spostarsi ad una festa presso la sede di alcune associazioni LGBT. Un bell’ambiente, per come lo ricordo: confortevole, amichevole, molto alla mano. C’era solo un piccolo problema: non era pienamente accessibile a persone con disabilità. Per fortuna!
Dico “per fortuna” perché, col pretesto di spiegare come mai se si fosse andati a quella festa io non avrei potuto parteciparvi, ho avuto occasione di raccontare una storia. E, da quel racconto, qualcosa ha iniziato a cambiare.

La storia che ho raccontato era più o meno questa: quel luogo non era accessibile al pari di molti altri ambienti LGBT della città. Paradossalmente vivo in una delle città più queer d’Italia, ma a me, che sono in carrozzina, offre le stesse opportunità di San Pietro in Casale. Per un po’ di tempo ho cercato di adattarmi e andare lo stesso, per quanto possibile: ho accettato di farmi sollevare, spingere e trascinare da sconosciuti, di aspettare mezze ore fuori da un locale in attesa che fossero dissepolte le chiavi di un ascensore, di sentir gridare durante un incontro..

Lei deve andare in bagno, qualcuno la accompagna?

..o di abbandonare sul più bello la gnocca della serata con frasi molto sexy tipo “scusami, ma ora torno a casa perché c’ho da pisciare, e qui il bagno accessibile non c’è”.

Poi ho capito che, tollerando tutto ciò, stavo facendo del male a me e agli altri.

Facevo del male a me, perché sopportare quanto sopra in luoghi pieni di cartelli sull’eguaglianza di diritti e sull’inclusione delle diversità è una costante coltellata nello stomaco. Ti ricorda quotidianamente che ci sono cause che contano più di altre: ci si può scannare a morte per esser dur* e pur* su, che so, il “pride ecologico” o il numero di consonanti da associare alla sigla LGBT, ma sulla disabilità tutti i compromessi appaiono accettabili di default. E a definire cosa sia accettabile, ovviamente, ci pensa chi disabile non è. Si chiede l’autodeterminazione un po’ per tutt*, tranne che per noi.

Ma facevo del male anche agli altri. Perché se sono io la prima ad accettare compromessi discriminatori, contribuisco a farli sembrare accettabili. Perpetuo una cultura abilista in cui appare “normale” che se hai una disabilità certe cose non le fai, in certi posti non ci vai, quando andare al bagno non lo puoi decidere da sol*. Ed è proprio questo il tipo pensiero che rende ancora “possibile” – sì, nel 2018, e perfino in ambienti eticamente molto impegnati – scegliere sedi non accessibili per i propri eventi o i propri collettivi:

L’inaccessibilità è ancora percepita come un male tollerabile.

Puoi escludere una sede perché non è abbastanza centrale o spaziosa o economica o antifascista, ma se ha i gradini vabbè, pazienza.

Questa è, più o meno, la storia che ho raccontato quella sera. E ho avuto l’impressione – un po’ nuova per me, lo confesso – che qualcuno avesse capito.
Dopo qualche giorno, ho visto nel mio stream di Facebook un post particolare: qualcuno stava organizzando un laboratorio sul poliamore, e chiedeva ai propri amici se conoscessero una sede disponibile, che fosse però accessibile anche a persone con disabilità.
Lo chiedeva pur sapendo che sarebbe stato molto più difficile trovare un luogo adatto. Lo chiedeva prima di sapere se qualche persona disabile avrebbe partecipato. Semplicemente, l’accessibilità era diventata un requisito base.

Trovare sedi accessibili non è facile, soprattutto per gruppi informali, senza budget o quasi, che in genere si appoggiano a qualche associazione o locale “amico”, in qualche modo già vicino alla comunità LGBT. Un network che a Bologna è diversificato e ricco di opportunità, ma, come dicevamo all’inizio, purtroppo non comprende molti luoghi davvero accessibili a tutt*.

Come gruppo Jump, abbiamo provato a connettere queste realtà con associazioni che dispongono di luoghi più accessibili, ma non molto conosciuti nel mondo femminista o LGBT. Ad esempio, recentemente abbiamo aiutato il laboratorio Sessfem a trovare una sede accessibile presso un’associazione di persone con disabilità.
In futuro ci piacerebbe allargare ulteriormente la rete, arrivando a stilare una lista di luoghi potenzialmente friendly sia per ospitare attività di gruppi LGBT che per le persone con disabilità. Invitiamo chiunque – associazioni, privati, ecc – a mettere a disposizione spazi del genere a Bologna e dintorni e a contattarci!

 

Gruppo Jump LGBT

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