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“Superare il razzismo, ogni tipo di razzismo, significa smettere di vedere la diversità dell’altro o imparare a riconoscerla e apprezzarla?
La soluzione può essere quella di interiorizzare così tanto l’abitudine alle diversità da non riuscire neanche più a vederle?”

Questo ci chiede Vulcanica nell’introduzione al mio post precedente. Per me la questione è aperta e ho solo risposte provvisorie, ma mi sembra di capire almeno i termini del problema.
Il mio sostegno alla “cecità”, che confermo, si scontra contro quella che viene chiamata la valorizzazione delle differenze: se “non vedo” il colore di una persona nera è come se non volessi accettare il valore dell’essere neri, e se “non vedo” l’omosessualità di una persona omosessuale è come se non volessi accettare o valorizzare quella caratteristica, e così via. In sostanza, un’altra forma di razzismo.

Ma quanto della nostra identità sta nel colore della pelle? Nell’appartenenza etnica o linguistica? Nel genere? Nelle preferenze sentimentali e sessuali? Nella religione in cui crediamo? Quanto è importante per noi definirci, e quindi presentarci agli altri e pretendere di essere riconosciuti, sulla base di queste caratteristiche?
L’identità è una faccenda complessa; è un’auto-definizione, ma sulla base di influenze e condizionamenti di vario tipo, quelli che abbiamo ricevuto dal giorno 1 della nostra vita, dalla tutina rosa o celeste che ci mettevano, dai regali che ci portava babbo (!) Natale, dai complimenti che ricevevamo (come sei bella! come sei forte!), dalle preghierine della sera, dai giudizi che sentivamo sulla nostra nazione e su quelle altrui, dalle immagini in tv di persone di altro colore, dalle aspettative dei genitori sulle nostre imprese amorose…

Se la società mi chiude in una definizione, e mi opprime o discrimina in base a quella, posso decidere di vestirla completamente, ostentatamente, oltraggiosamente, di sbatterla in faccia a chi mi fa del male o mi ignora apposta, per costringerlo a vedere quella differenza e capire i problemi che mi sta buttando addosso. Allora faccio lobby; allora salgo sul carro del gay pride seminudo e truccatissimo e ballo su tacco 12 baciando sensualmente il primo che mi capita. Affirmative action.

Posso anche scegliere di passare inosservato, non certo per nascondermi, ma perché la mia identità sta in tante altre cose: i miei valori, i miei gusti, i miei affetti, il mio lavoro… Perché mai dovrei essere visto come un insegnante gay, un amico nero, un medico donna, un’amante degli animali musulmana, quando sono semplicemente un insegnante, un amico, un medico, un’amante degli animali?

C’è valore in tutte e due gli atteggiamenti. Dipende dal momento, dalla strategia, dalla compagnia. A me sembra giusto partire dando per scontata la “cecità”, quella virtuosa, perché non c’è motivo da distinguere e discriminare; ma se necessario, credo anche sia giusto andare all’attacco affermando la differenza. A scuola faccio così: non metto mai in campo per prima una di queste differenze quando so che ho a che fare con temi “sensibili” o con qualcuno che potrebbe appartenere a una “minoranza”, ma accetto di parlarne solo se la persona ne parla per prima, e solo nei termini che usa lei, per non introdurre stereotipi. E, naturalmente, quando capitano osservazioni o episodi piccoli o grandi di razzismo. Allora chiudo i libri e mi tiro su le maniche, e c’è un gran silenzio.

 

Silvia Masotti, Pisa

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