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C’è una domanda che ho imparato a farmi recentemente. Quando si intende lottare contro le discriminazioni, è bene o no essere “blind”?

Il termine si usa in inglese in espressioni come “colour blind”, essere ciechi al colore, non vedere il colore di una persona, e precisamente, comportarsi come se non si fosse coscienti che la persona con cui abbiamo a che fare in una certa situazione ha la pelle di un certo colore; inutile dire, si tratta di bianchi che “non vedono” che l’altra persona è nera. Anni fa pensavo che fosse un atteggiamento giustissimo: che differenza fa il colore delle persone? Non siamo forse tutti uguali? Non è forse un bene non porsi il problema del colore nell’avere a che fare con gli altri?

Poi ho capito che nel dibattito antirazzista, il concetto di “colour blind” è considerato più un male che un bene; molte persone nere di cui ho letto articoli e con cui ho scambiato idee odiano questo atteggiamento, perché ritengono che sia un falso egalitarismo bianco che invece nega la loro diversità e tutto il problema del riconoscimento della loro identità.

Non voglio banalizzare una questione che andrebbe invece approfondita ricorrendo a voci ben più autorevoli della mia, ma io sono un po’ testarda e continuo a trovare questo tipo di blindness giusto, come traguardo, e anche come strategia di lotta. Si applica a tante cose e mi sembra di enorme importanza.

Per esempio. Quando la cronaca parla di reati, se sono commessi da italiani si parla dei sospettati in termini generali: un ragazzo, due spacciatori, il marito violento; ma se sono commessi da stranieri non si manca di farlo presente subito: un tunisino, un gruppo di albanesi, la ragazza americana etc. Non è ovviamente ingiusto? Non si dovrebbe dire in ogni caso: un uomo, una ragazza, un gruppo di spacciatori? Ha importanza l’origine o la nazionalità? Le notizie in cui si specifica che gli interessati sono stranieri rafforzano enormemente certi stereotipi per cui gli stranieri commetterebbero molti reati, mentre sugli italiani non si creano questi stereotipi. Gli italiani sono “maggioranza” e non ritengono di doversi qualificare; gli stranieri sono “minoranza” e sono additati per sempre come tali.

Allo stesso modo, e in particolare parlando da insegnante, mi sembra inutile e molto dannoso qualificare persone e personaggi di romanzi e film (insegno lingua e cultura inglese in un liceo) in base alla provenienza, al genere, ai gusti sessuali, alla religione, a qualsiasi caratteristica che possa dare spiegazioni stereotipate e false dei loro comportamenti. L’alunna X non ha la difficoltà Y nello studio perché è di famiglia cinese, o perché i genitori sono divorziati, o perché è femmina, o perché è testimone di Geova, o perché è gay, ma ce l’ha e basta, dobbiamo trovare delle soluzioni insieme a lei, non fare i sociologi classificatori senza, tra l’altro, averne le competenze e i mezzi.

Possiamo tentare diagnosi sullo stretto processo di apprendimento ma non ipotesi sulla persona. Se cadiamo in quell’errore, rischiamo di accontentarci di una spiegazione estremamente superficiale che ci fa mancare le vere ragioni. E quanto agli autori e personaggi della grande letteratura… Si apre un mondo! Magari in un prossimo post.

 

Silvia Masotti, Pisa

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