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La chiamavano Annà, perché i suoi capelli neri pece e gli occhi ossidiana erano un accento fuori dal comune, distorto dalla normalità. I suoi passi calcavano la terra come fanno gli animali selvaggi verso il cibo e la sopravvivenza, avanzando nel silenzio d’un predatore affamato. Cercava riparo dai tormenti, sotto quel sole siciliano che non risparmiava neppure le pietre, smosse ogni tanto dai suoi passi rotolavano via per sfuggirgli. Verso il fiume avanzava per scappare dalle ferite del tempo, per lasciare alle spalle tutto… Si fermava solo al limite oltre il quale stavano i monti alti coi pastori e le pecore mansuete. Li vedeva attraversare la natura erbosa, cibarsi di ciò che trovavano, vedeva il cane padrone che sorvegliava ogni cosa proteggendole dal male, vedeva le nuvole coprire il sole e riconosceva in esse la lana delle pecore che lì pascolavano. Se si fosse avvicinata al cielo era certa avrebbe potuto sentire anche l’odore selvaggio del bestiame. Sedeva a terra e chiudeva gli occhi, saltando il cielo e gli orizzonti…

– Annà!
La voce pareva uscita dal ventre della solitudine.
– Annà torna indietro. Oggi a scuola te ne devi andare.
La veste nera della madre svolazzava al caldo vento di giugno, sulle note leggere del fiume già mezzo rinsecchito dal caldo… Prendeva adesso la sua figlia ribelle per un braccio, con l’avidità della paura. Ne aveva svelato il nascondiglio, quel luogo che fino ad allora era rimasto puro.
Era tardi, i cancelli della scuola erano già aperti e tutti i bambini in grembiule, libri alla mano, colazione nello stomaco andavano a rincorrere quella che chiamavano cultura. Silenziosa, ora anche lei insieme al gregge camminava verso la sua classe, con gli occhi bassi sedeva al banco sola, come tutti volevano, lasciava scivolare la cartella sulle mattonelle, la testa sul banco, aspettava nel silenzio di un pensiero, fra chi invece sedeva insieme agli altri, giocava nella spensieratezza di quegli anni dorati.

Di colpo il silenzio della classe suggerì ad Annà che la maestra era arrivata per la sua lezione. I bambini alzati, la suora, lenta nell’andare, si accingeva alla cattedra che gli conferiva autorità e potere su quelle anime pie. Annà ne osservava i passi precisi, la veste nera nera come la lavagna sulla quale tracciava le sue regole, il rosario sempre appeso al collo, marrone come il legno del crocefisso appeso al muro della classe, la bacchetta nella mano destra… Tutti adesso prendevano posto lasciando il solco vicino a lei, e cominciava la lezione con tutte quelle storie sugli articoli, le preposizioni, i complementi, i numerali, gli avverbi, le congiunzioni, mille e mille subordinate con mille e mille funzioni, alcune confuse, mescolate, alterate. Ma ad Annà importava poco di queste storie che la confondevano e la annoiavano, lei preferiva guardare oltre la grande finestra accanto a lei, oltre la quale vedeva i monti delle favole, i sogni intrecciati nei rami degli alberi, enormi com’erano, spostati dal caldo vento dell’isola… Volava oltre l’ignoranza che pretendeva d’insegnare e andava incontro ai suoi pensieri, cavalcando le mille onde delle sue trame. Sognava… come potessero cantare gli uccelli con i loro cinguettii; come facessero le nuvole a spostare tanta acqua nel loro ventre e le lucertole che si arrampicavano silenziosamente nei muri sgretolati, con tanta agilità; come i ragnetti si costruivano le loro reti minuziose e invisibili contro cui le farfalle incaute incollavano le loro ali; come i grilli potessero saltare tanto in alto… Una forte bacchettata sul banco strappò Annà alla sua ingenuità costruita.

– Li hai fatti i compiti?
Il silenzio di Annà era lo schianto di mille verità.
– Fuori!
Disse con determinazione la suora, puntando contro la porta in legno il dito, grigio di vecchiaia, grigio come i suoi tanti capelli. Aveva lo sguardo annebbiato dagli spessi occhiali, l’espressione da cane rabbioso, Annà aveva imparato a subirlo. Ora si alzava dalla sua nuvola di sogni, a testa china attraversava gli altri banchi coi mille occhi appiccicati addosso che la accompagnavano per mano verso la porta, che ora si apriva, che ora si chiudeva. Il mondo della sciocca cultura da un lato, il mondo delle grandi magie dall’altro…

In un angolo era adesso il suo vagare, alzata mentre i minuti scorrevano lenti e ansiosi, con quel senso di colpa che pesava, tanto pesava da stancarla e farla sedere a terra. E ogni tanto qualcuno passava, guardava negli occhi Annà, raggomitolata a terra, passava svanendo nella nebbia dell’omertà. Così trascorrevano le ore e lei sperava solo nel suono della campanella, che fissava per ore, sperando magari in una magia che la facesse scoccare, muovere un istante. Osservava il girovagare dei bidelli nelle classi, a distribuire fogli, a fotocopiare libri scaduti che qualche insegnate vecchio stampo voleva riesumare. Vedeva il nocciola dei muri attraversare l’ampio corridoio, sulla destra il cortile dei giochi, dove le fantasie diventavano per dieci minuti realtà tangibili. Si poteva essere principesse in un castello di favola, dove si aspettava il principe azzurro, preparando ciò che le donne preparano da anni, servendo gli uomini. Ma lei non voleva stare ad aspettare con le altre bambine in quelle favole rosa, lei amava piuttosto cavalcare draghi indomabili, come facevano i veri cavalieri… Ma chi la vorrebbe una principessa così? Era destinata alla solitudine di quello spazio fuori dalla porta, con le ginocchia al petto e lo sguardo che girovaga nell’infinito. Il tempo era una realtà sconnessa, non vedeva nessuna lancetta dettare le ore. Aspettava così l’ultimo rintocco, quello della libertà oltre quelle inferriate di ferro che chiudevano la scuola a mo’ di prigione. Solo alla fine poteva attraversare, ultima della fila, il lungo corridoio fino alle grandi porte con quei vetri dipinti, raffiguranti fiori. Andava oltre gli alberi del cortile, lasciava alle spalle i cancelli aperti che davano sulla grande via, verso casa.

Varcò la porta di casa cercando di lasciare fuori il senso di colpa. La madre in cucina, il padre in stanza e lei attraversava la casa come un fantasma. Poggiò i libri sulla scrivania, erano pieni zeppi di segni rossi, che se aperti iniziavano ad urlare le peggiori annotazioni: male, malissimo, incompleto, non hai svolto i compiti… Qualche “benino” timido faceva sentire la sua voce, ma in mezzo a tanta massa non riusciva ad emergere. Sul letto adesso la ragazza poteva riposare i suoi sogni, e con gli occhi lucidi pensava ad un anno fa, quando tutto questo casino era cominciato, le madri degli altri bambini che urlavano in quella scuola, le maestre perplesse e perfino i bidelli da quel giorno avevano timore di avvicinarsi a lei e ai suoi oggetti maledetti… Ma quei fausti pensieri infondo la accarezzarono un poco, quando quel viso e quel corpo gli tornarono in mente un’altra volta.
– Il mangiare a tavola è.
Adesso si sentivano solo i passi veloci che ritornavano verso la cucina della casa, e Annà correva a lavarsi le mani sporche prima di pranzo.
– Tua figlia oggi non stava andando a scuola.
Si fermò giusto sulla soglia della cucina ad ascoltare.
– Dal parrino l’abbiamo portata…
– Quello lo sai cosa ci ha detto. La dobbiamo mandare fuori per un po’, in convento, in una casa di cura… Solo così si può aggiustare sta storia. Mia sorella Nunzia manco la vuole vedere, me lo fa per favore di tenersela un poco lì, giusto il tempo che sta storia finisce. Siamo sulla bocca di tutti.
– Il paese parla, parla sempre Maria, che ci cunti! In Sicilia siamo.
– Quelle vipere delle altre mamme manco la parola mi rivolgono. L’altro giorno la suora mi fece vedere il libro. Lo sai che è svogliata?
Aprì la porta ed entrò, non voleva sapere oltre quelle lamentele. Si sedette silenziosa come faceva ormai da un anno in quella casa, si riempì a forza la bocca e masticando come gli animali gettava tutto, di forza, nello stomaco.

Pomeriggio, Annà e la mamma andarono alla piazza a comprare qualche vestito per la festa della Madonna Annunziata che presto avrebbe fatto fermentare il paese. La gente iniziava a muovere sentimenti religiosi: le vecchiette si sistemavano tutte, la celebre banda del paese provava le melodia, il parroco si riposava in vista della lunga processione… La mamma di Annà pensava forse che la figlia potesse ricevere la grazia, ed ogni processione era una preghiera e un’offerta larga agli uomini che passavano col cesto facendo tintinnare i soldi spicci già raccolti. Mamma e figlia si muovevano con passo svelto fra le strada, per scivolare silenziose e sfuggire agli sguardi. Annà si vide passare davanti la Statua dei caduti del paese, nella piazza principale, vicino le scuole che altri bambini come lei frequentavano. Ammirò un istante quell’omino seduto, stanco quasi afflitto e sembrava che la sua di stanchezza si trasmettesse e sommasse a quella di Annà che correva e correva nel paese. Ebbe giusto il tempo di voltarsi a mirare gli anziani seduti e sorridere nel notare la somiglianza colla statua e poi fu investita appieno da un colpo allo stomaco: la vide passare, lì vicino a lei. Era cresciuta rispetto all’anno passato ma aveva sempre quei lunghi capelli dorati che la rendevano unica rispetto alla massa; percepiva ancora quel suo profumo che le ricordava le rose di bosco, quelle che lei raccoglieva a casa della nonna e che crescevano a ridosso del muro nel piccolo giardino. Una volata di quelle emozioni ora invadeva ogni cosa… La mamma che teneva per mano la sua bambina si accorse di quello sguardo pesante, quegli occhi neri enormi si sarebbero visti brillare a chilometri di distanza e lei voltò sentiero, cambiò rotta pur di non doverli vedere ancora. Adesso la ragazza dai capelli dorati veniva tirata via, quei suoi lunghi capelli ondeggiarono per un attimo ancora e poi basta, poi non si videro più. La mamma di Annà arrossì tutta: era un misto di rabbia e vergogna quella che la assaliva. Anche lei cambiò i suoi progetti e si voltò, sentiva gli occhi della gente appiccicarsi addosso al suo vestito e d’improvviso si sentiva sporca, sudata quasi il tormento l’avesse stancata di più della passeggiata veloce. Tornava a casa in tutta fretta e con gli occhi bassi bassi che sfioravano l’asfalto… Sbatté la porta per lasciarsi alle spalle il male e Annà restò immobile sull’uscio, si poggiò a terra senza neanche cercare di scrollarsi da dosso quegli occhi, che tanto su di lei avevano poco peso.

Si ricordò allora di quel tormentato giorno. Dopo le urla della scuola la mamma la prese per il braccio e la tirò verso casa, aveva quello stesso sguardo grigio, di vergogna e rabbia, come adesso. Non la guardava in viso e non lo avrebbe fatto più. Non una parola, non un gesto, solo quegli occhi fissi sulla strada e il braccio arrossato di Annà come la guancia, che gli facevano male. A casa si accucciò dietro la porta che dava alla cucina e ascoltò la lite fra la mamma e il papà: lei piangeva, lui non capiva, lei urlava allora che doveva essere successo questo oppure quello, gli chiedeva spalancando gli occhi cosa avessero sbagliato, anzi cosa avessero fatto di male, perché il diavolo era entrato a casa loro… Papà inghiottiva aria e a tratti stava zitto come volesse pensare, a tratti apriva la bocca ma non gli usciva niente. Poi lei corse nella sua stanza e si sdraiò. Guardò il crocefisso che aveva appeso alla parete e si chiese perché la mamma aveva detto che il diavolo era venuto lì. Da piccola si spaventava parecchio e stringeva a sé le immaginette che gli davano in chiesa la domenica. C’era un brutto diavolo e poi quell’angelo che gli schiacciava la testa e vinceva sul male. Ma adesso era lei il male?
Dopo quel giorno andò ancora alla Santa Messa, sempre con la madre che ogni domenica prendeva i vestiti nuovi, la corona del Rosario e camminava spedita verso la casa del Signore. Ma le cose adesso cambiarono, dalle più piccole alle più grandi. Se prima la mamma ascoltava il Rosario prima della cerimonia, ora partiva da casa all’ultimo momento per evitare gli inciuci fra le vecchiette del paese; se prima sedeva ai primi banchi, ora preferiva gli ultimi posti; se prima prendeva sempre la comunione, adesso si vergognava e la chiedeva al prete in sacrestia. Quante cose Annà aveva visto mutare in sua madre. E il padre poi, scivolava silenzioso in tutto questo, come se non lo riguardasse o volesse riguardare solo la madre che ne soffriva e si disperava.

Di colpo Annà sentì sete d’aria nuova, sentì il bisogno di scappare da quei pensieri ossessivi. In due minuti era giù per le scale del palazzo e correva via sulla strada che dritta portava al centro del paese. Passò accanto alla sua scuola, con i cancelli serrati come nelle giornate di festa, quando restava chiusa per giorni, e osservò per qualche istante i ragazzini che giocavano a pallone nello spiazzale. Entravano dalla ringhiera arrugginita, ne avevano rotto una sbarra e ogni pomeriggio si intrufolavano lì dentro col pallone; sceglievano al solito le squadre, poi c’era la fatidica domanda “Palla o campo?” che impegnava i più senior in una tattica strategica ben precisa. Lei non giocava mai a calcio, perché era femmina e avrebbe dovuto dedicarsi ad altro, tipo il cucito o le bambole di pezza finte.
Tagliò corto coi pensieri… Ora attraversava la piazza, passava di fronte al luogo dell’incontro, tirava dritto verso la Chiesa Madre. Alta, bella, invadeva il territorio con un senso di trionfo e maestria antica, di quella che gli anni rendono mitica e inimitabile. Ancora oltre Annà vedeva passare sotto sé i basolati lavici, quelli più vecchi e logori dove passava la gente a lasciar traccia…

– Spostati! Levati da là! Gira… Gira!
Era quella giornata tipica in cui l’odore della calda stagione aleggiava nell’aria, e Annà tirò un gran respiro per poterla saggiare.
– Ouh! A te sto dicendo!
Lo sguardo della ragazza si volse verso il giovane muratore che gli urlava contro. Di fronte lei un cantiere aperto con due operai, uno si capiva era il capo perché lo vide impartire lezioni all’altro più giovane di lui. Aveva i denti gialli e logori, sembrava non riuscisse più neanche a parlare e si inclinava sul ragazzo per impartirgli gli ordini. Gli stava spiegando come avvitare una lampadina e glielo spiegava bene con precisione certosina, perché era tutto un avvitare e ruotare e girare la mano ad una certa velocità e con una certa pressione, ché il mastro ne sapeva di più… Lui l’esperienza c’aveva!
Annà ne sorrideva divertita…
Passava ora il chiosco del comune: lo stemma del leone rampante, orgoglio del passato, che aveva disegnato a scuola per un compito di arte. La via degli archi la portò verso la chiesa che lei preferiva, quella dove la terra dell’Etna si sposava con il bianco delle pietre. Una vecchia figura si ergeva in alto, nuda, guardava verso la facciata e le donne tutte caste abbassavano gli occhi nel passare, ché tormentosi pensieri potevano sorgere dinnanzi una chiesa e subito era certo un posto all’Inferno. Annà ammirava gli animali scolpiti ai piedi di quel gigante. Suo padre una sera glieli aveva descritti: c’era l’aquila sulla testa, il serpente attorno al busto, il cane ai piedi… Il padre non gli sapeva dire chi fosse quella figura, che sembrava stare lì da sempre e alcuni ci tramavano leggende per dare storia, altri ne miravano il basso ventre con le pietre per mutilarlo.
Un prete camminava spedito passando sotto gli occhi della ragazza, lei si ricordò di lui, ma lui impegnato da chissà quale ministero urgente passò oltre. Annà lo aveva visto cantare a scuola per una messa e lo aveva visto cantare, con le mani che danzavano e la bocca sguainata, le canzoni della chiesa che tutti i bambini ripetevano a memoria.

– I preti, figghia mia, sono quelli che chiedono conto dei peccati ma ne fanno di peggiori!
Annà balzò all’aria sentendo la voce provenire da vicino a lei. Un vecchio si era seduto accanto, col bastone che reggeva il mento sporgente, quelle mani rugose che narravano una vita e lo sguardo fisso, vispo, sui gradini della chiesa.
– Ci tengono stretti all’inferno e al paradiso e così la bocca e le mani cucite.
Acuiva lo sguardo verso il vecchio, adesso mirava ai suoi occhi, cercava complicità, sofferenze condivise. Ma il vecchio con lo sguardo basso guardava i gradini, i gradini neri e niente più.
– Lo sai tu che le pecore come le femmine crepano di parto? Dio con ‘na mano dona e con l’altra scippa. Tu sei piccirilla per capire ‘ste cose. – un lungo sospiro gli impedì per un attimo di andare avanti. – Gli uomini di chiesa non vivono la vita vera, quella delle lacrime. E na volta chiuse le porte del sagrato s’ammutiscono, ce la finiscono di pensare ai cristiani di sta terra. Si chiudono là dentro, fra le mura, suore e parrini… E poi ci dicono a noi cosa dobbiamo o non dobbiamo fare.
Con lo sguardo Annà voleva dire al vecchio che lo capiva, che sentiva chiara la voce che arrivava alle sue orecchie; ma capiva anche che per quel vecchio lei era troppo piccola e non l’avrebbe manco ascoltata.
– Adesso corri a casa che fra un po’ a piovere si mette.
Il vecchio fece lo sforzo di aggrapparsi tutto al sul bastone, tanto che Annà temette per un attimo si spezzasse, e con la schiena bassa e il vento caldo contrario se ne andò verso la strada rugosa e vecchia, come la sua pelle.

Pensava Annà a testa bassa durante il tragitto: il vecchio si era sbagliato perché c’era il sole e tutta la gente andava in giro senza ombrelli. Fu solo quando giunse di nuovo alla piazza del paese, dove le mamme portavano le bimbe per i vestiti e se ne andavano festose a vantarsi con le altre mamme, che vide cadere i goccioloni di acqua. In un attimo la piazza si svuotò: la gente si riparava sotto le borse, i giornali, le buste della spesa… Nessuno si aspettava quel temporale che invece il vecchio aveva per magia predetto. Lei pensava a quanto sarebbe sembrata bella adesso quella chiesa, il nero lavico bagnato sarebbe stato più brillante e forte del bianco opaco.
Quando Annà tornò a casa era fradicia e sentiva perfino l’odore della pioggia addosso, ma non le dispiaceva. Amava l’odore del bagnato sulla pelle, era qualcosa che la ricollegava a se stessa.
Dopo la cena e le altre urla in famiglia, si lavò velocemente e si mise a letto. Le notti non erano più tranquille per Annà ormai da tempo, ma il riposo del letto la faceva sentire protetta dal male, lontana da quella scuola. Chiudeva gli occhi immaginando di star fuori a scrutare le stelle, sempre lucenti le ricordavano le lucciole che ogni tanto da bambina vedeva fra le mani del papà.

– Annà!

– Annà svegliati che tardi fai stamattina!
La luce del sole si poggiava sulle guance della ragazza che ancora intorpidita muoveva lentamente le gambe e le braccia, per svegliarle dal riposo notturno.
– Annà veloce vestiti che è tardi!
A casa la mattina c’era sempre un gran trambusto, con la madre che si adoperava tutta per mandarla a scuola in fretta e furia. Quella mattina però Annà non fece molti capricci per vestirsi, quasi rincuorata dalle parole di quel vecchio che aveva visto il giorno prima.
Si sciacquò distrattamente le guance rosse rosse, come le labbra, prese la cartella con tutti i libri della giornata anche se non era sicura di quali fossero giusti o no, si infilò le scarpe leggere e il grembiule che le sapeva tanto di bambolina. Non si riconosceva per niente in quei vestiti, e vedeva nelle sue compagnette tutte agghindate, ogni mattina, il riflesso della falsità. Nella perfezione riconosceva la disarmonia della facciata costruita ad hoc per dare un’immagine fissa e sterile, senza via di uscita. Quei grembiuli tutti uguali erano la perfezione dell’insieme, dell’essere uguali, indistinti, in armonia, eppure lei ogni giorno stava sola in classe, stava sola nei suoi pensieri che sembravano essere diversi da quelli degli altri, e quindi non si riconosceva nell’uguaglianza di quei grembiulini farlocchi, ma appena poteva si strappava il suo di dosso…
Salì i piccoli gradini che la separavano dall’entrata, attraversando i soliti cancelli, le solite porte con i fiori disegnati sui vetri… Sedeva al banco, guardava la lavagna nera ancora vuota, con qualche traccia di gessetto del giorno prima. Cercava di ricomporre nella mente quelle scritture mezze zoppe, che un colpo di spugna violento aveva mutilato. Guardava poi le altre compagne e gli altri compagni prendere posto avanti a lei, i maschi tutti da una parte perché erano i più monelli e facevano gruppo fra loro, alla ricreazione giocavano a guardie e ladri correndo ad acchiapparsi e azzuffarsi, avevano sempre i grembiuli sporchi o strappati, facevano sempre per rimediare qualche guaio; dall’altra le femmine invece, che si sistemavano le treccine e appena entrate iniziavano ad aprire i libri, mentre nella pausa mangiavano la merenda e parlavano fra loro delle loro cose.
E lei dove stava? In quei gruppi non trovava dimora: da un lato troppo forti, dall’altro troppo fragili…

– Buongiorno maestra!
Si levò il coro alla vista della suora che, come ogni mattina, entrava lesta nella classe facendo svolazzare il suo vestito e mostrando la corona del Rosario tutta sul petto, sul cuore. Poggiava la borsa sulla cattedra verde, apriva il libro e dettava la pagina da prendere. Annà però era come sempre distratta e non aveva il libro con sé, lo aveva scordato, così come altri ragazzi; ma mentre loro potevano leggere il libro insieme ai loro compagni di banco, lei era sola. Aveva quel banco vuoto che tracciava un muro violento.
– “Cosa vuoi essere da grande?”. Oggi farete questo tema, dopo aver ripassato dal libro come si svolge.
Annà iniziò a tracciare la consegna in rosso al centro del foglio, sopra a destra la data e a sinistra il nome del paese, come sempre.
“Da grande voglio essere felice!”
Scrisse queste prime parole sul suo foglio bianco e poi basta, come se avesse esaurito già tutto ciò che doveva dire mentre gli altri ancora si affannavano a rileggere il libro, ché già avevano scordato come si scrivesse il loro nome. Tutti si scambiavano consigli sul come fare, se preferire questo o l’altro argomento, se raccontare del lavoro che faceva papà alla Posta del paese perché forse, gli diceva, avrebbe fatto anche lui quello e addio astronauta e stelle lontane.
Il bussare alla porta destò tutti quanti dai loro fogli sognanti e li riportò dentro l’aula in cui scrivevano. Era il preside che lungo, lunghissimo, in abito grigio come i suoi baffi, e col sorriso che sempre lo contraddistingueva, entrava nella classe. Era una figura rara in quell’istituto, che stava lontano dal centro del paese, ma ne sembrava quanto mai orgoglioso. Era venuto per i saluti di fine anno e tutti quanti si alzavano nel vederlo. Prese a parlare e parlare, con qualche parolone qua e là, con qualche elogio agli insegnanti e agli alunni tanto bravi, non guardava nessuno in faccia ma sorrideva a tutti e la suora accanto a lui sembrava tanto docile ora, tanto mansueta, come quei cani che hanno paura dei loro padroni maneschi… Annà si divertiva parecchio ad immaginarlo come un gran coniglio con quei denti sporgenti e quella voce stridula. Se lo immaginava tutto festoso, allegro come non mai, e si aspettava che si mettesse a saltellare da un momento all’altro fra i banchi con la suora tutta sbalordita che lo fissava e non sapeva cosa fare e perciò iniziava a rincorrerlo e tutti i bambini a ridere a crepapelle.
In quel momento la bacchetta che la suora teneva sempre in mano era sotto la cattedra, ben nascosta, e si usava solo per indicare quelle vecchie cartine appese alle parenti, perché i bidelli si divertivano ad appenderle troppo in alto e non ci arrivava ad indicare la Liguria, il Piemonte, l’Alto Adige…
Ma chiusa la porta e seduti i bambini, come manichini a cui vengono tagliati i fili, la bacchetta tornava nella mano e adesso la si poteva usare per correggere gli errori tremendi dei bambini bacchettando qua e là questa o quella manina. Colpevoli i bambini com’erano di sbagliare quella pura grammatica che stava solo dentro i libri e in bocca alla suora.
Ad un certo punto i mormorii si sedarono e la maestra giunse al banco di Annà che attendeva in silenzio. Percepiva i passi e lo sguardo che già da lontano fissava il suo foglio e lei non poteva che attendere il giudizio, come Cristo attese Pilato.
– E tu vuoi essere felice? Felice e basta? – voltò leggermente il foglio verso di lei, per rileggere ancora. – Non pensi ai tuoi genitori? A quello che vogliono loro per te?
Annà ascoltava con la testa china.
– Tu Annà la devi finire! Devi essere come tutte le tue compagne, devi essere normale, perché tu normale non sei.
Aveva già sentito quelle parole, erano come serpi che strisciavano lungo il corridoio di quella scuola, uscendo dalle lingue biforcute di tutti. Istintivamente alzò lo sguardo come se qualcosa le avesse ferito l’anima… E quegli occhi neri selvaggi e rabbiosi restarono un attimo a divorare la casta suora, con la bacchetta sempre in mano, pronta.
– Abbassa gli occhi!
Lo schiaffo fece storcere la piccola. La fece dirottare verso la finestra col sole che gli accecò gli occhi per un momento.
Si ricordò ancora di quel giorno, alla ricreazione, quando tutte le altre ragazzine erano nel cortile della scuola a giocare fra loro, mentre lei e la sua migliore amica restarono in classe, sole nascoste a parlare e a scoprirsi. Poi lei aveva sentito quell’impulso, quell’istinto primo che la travolgeva anche nei suoi sogni più intimi, quelli che sapeva essere strani rispetto gli altri. Ma questa volta la vedeva davanti a lei e quei lunghi capelli che brillavano al sole e quel profumo che le inebriava i sensi. Percepiva il calore del suo tormento ma sentiva il desiderio di afferrarlo.
La baciò!
Nel nudo dei vetri che davano fuori, in quel mondo che lei tanto sognava. In quel momento i sogni erano diventati per un attimo realtà, erano palpabili sulle labbra morbide di lei.
Ci fu un attimo di silenzio, lo sguardo prima sorpreso poi terrorizzato, uno scatto rapido fuori dalla classe e poi la suora, le urla, la madre, il suo schiaffo…
E adesso anche questo… “Non sei normale Annà! Annà sono cose schifose queste!” le avevano detto tutti. Ancora una volta quelle parole la toccarono nel profondo, e l’eco della voce del vecchio la stonò nel silenzio dell’umiliazione, mentre tutti la fissavano e i suoi occhi traboccavano di lacrime per il dolore.
– Lei… – sospirò.
– Maestra… – con gli occhi neri di rabbia.
– Mi fa schifo!
E la spinse con la potenza di un gesto che racchiude tutta la rabbia sopita nel tempo… La suora inciampò fra i banchi trascinando a sé qualche libro suicida e tutti restarono col fiato sospeso nel silenzio, come dopo lo scoppio di una bomba.
Corse forte Annà verso la porta, corse veloce verso il lungo corridoio spingendo le porte e attraversando quei fiori finti e quei cancelli deboli.
Il bidello della scuola leggeva il giornale e vide filare sotto il suo naso quella bambina, percependo a mala pena i capelli neri ondeggiare. Un attimo dopo gli corse dietro.
Verso la libertà correva adesso e pareva che nessuno potesse fermare i suoi passi spediti, come quando sulle ali della fantasia era sfrecciata via dalla realtà. Passò attraverso le viuzze del paese, dove le vecchiette non si interessano di nulla ma sanno tutto di tutti. Il bidello allora gridò aiuto ai vicini e un mastro, che stava spiegando al garzone da che lato usare il martello per martellare, prese a fare il forte e partì appresso alla ragazzina. Piccola com’era passò ratta sotto delle lenzuola stese al sole, ma il bidello e il mastro vi si impigliarono, e nel candido colore del bianco caddero a terra. Li guardò cadere Annà e aggrovigliarsi fra il bianco dei panni, mentre alcune vecchiette guardavano la scena dalle inferriate sempre chiuse.
Stancò Annà e si fermò solo quando raggiunse il fiume, così secco e vuoto nella torbida giornata. Il fiatone era l’unico suono che percepiva insieme ai suoi passi che schiacciavano le pietre. Sedette allora vicino a quel filo d’acqua che ancora resisteva al tormento dell’afa. Sentiva il vento che turbava i pochi arbusti sulla riva del fiume, lo scorrere leggero delle sue acque mansuete e il cielo lucente e freddo come la mano e la terra.

D’un tratto tornò indietro col pensiero, ripercorse le strade appena battute e pensò al casino che doveva ancora succedere, quando avrebbe fatto ritorno a casa. E la mamma? Si sarebbe tormentata ancora di più, avrebbe deciso finalmente di mandarla lontano da qui, lontano da lei per chissà quanto tempo.
Guardò ancora al di là del fiume il gregge pascolare, quanto era serena la pecora che riempiva i campi? Dormiva, sollazzava, brulicava… Sembrava non patisse né gioia né dolore, ma solo un eterno stare, come sta il sole sopra la testa e la terra sotto ai piedi. Ne fu attratta.
Poggiò i piedi sulla riva secca, e sembrò che anche quelle poche acque si ritirassero mentre lei avanzava. Pochi passi la separavano dall’altura, dove avrebbe incrociato quelle bestie. Alcune di loro sembravano fissarla, nella sua goffa danza, per evitare le pietre traballanti. Era quasi arrivata sull’altra sponda, evitando qua e là qualche ammasso di ramoscelli ed erba secca, chissà nascondessero qualcosa…
Una serpe, nera come gli occhi di Annà, selvaggia come i suoi capelli ondulanti nel vento, feroce come i suoi lineamenti aspri, si avvicinò lesta. Annà la vide inerpicarsi fra i sassi bianchi col suo fare esperto e impressionante, la vide uscire la lingua per tastare l’aria davanti a sé e poté percepire il suo silenzioso desiderio di carne. Presto la fronte madida iniziò a gocciolare, le mani presero a formicolare e tutta quanta, la povera, tremò.

Un solo guizzo, preciso quanto lesto, le fece percepire un acuto bruciore alla caviglia che la fece cadere giù. Vedeva il sangue scorrere e macchiare i sassi e le acque deboli, e sentiva più da vicino quel lieve fruscìo del vento caldo fra i cespugli, delle campane dondolanti delle pecore in lontananza, del fiume che scorreva via…
– Annà! Cascàsti? – sentì.
Gli parve riconoscere la voce della mamma, quel lembo nero del suo vestito che oscillava al vento sembrava inconfondibile. Sorrise un poco e si sentì alzare da mani fredde e ossute, con quel lungo vestito nero e gli occhi vuoti come voragini. Poi quel nero ricoprì ogni spazio, fra lei e la collina, fra lei e le acque rossastre, fra lei e il paese diroccato alle sue spalle…
Tutto era diventato buio.
Buio, e niente più.

 

Rosario Gullotto

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