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  • «contròllo» s. m. – 1. a. Il controllare e il suo risultato; verifica, accertamento dell’esistenza di un fatto o dell’esattezza, del corretto funzionamento, della regolarità di qualche cosa. 5. Dominio, supremazia, padronanza.
    (Cfr. Treccani)

Molti pensano che il disturbo da ipercontrollo, o mania del controllo, sia riducibile all’avere tutta la propria vita spalmata davanti, riordinata, incasellata, classificata. Non è del tutto sbagliato, ma non è nemmeno la verità completa. Quelli sono i sintomi superficiali, quelli visibili, la punta di un’immenso iceberg immerso nelle acque della propria psiche.
L’ipercontrollo avviene tutto dentro la tua testa.

Chi soffre di ipercontrollo, generalmente, sa che il mondo in cui viviamo è impossibile da controllare, e a volte non c’è veramente nulla che avremmo potuto fare per cambiare le cose. La mancanza di controllo su questi fattori esterni è quello che scatena la mania. La necessità di portare ordine, di portare senso nelle proprie vite, diventa un impulso a cui non ci si può opporre, così come respirare, e l’idea di non riuscire a conseguire quel determinato obiettivo, ovvero avere il controllo, è qualcosa di così inconcepibile da essere doloroso.

Ho già parlato in passato della mia mania del controllo, e di come sia riuscito a lasciarmi alle spalle quella “punta dell’iceberg” che costituisce anche un po’ la rappresentazione visiva dell’ipercontrollo.

Ad una seduta il mio terapeuta mi disse una cosa che mi rimase profondamente impressa. Stavamo parlando del concetto di separazione, e di come la morte di mio padre per colpa di una malattia che era al di là delle nostre possibilità di, appunto, controllo, sia stato uno dei più grandi trigger (fattori scatenanti) per la mia mania, che l’avrebbe portata ad una profondità mai raggiunta prima. Mi disse: «Sai, Nicholas, la separazione è la cosa a cui siamo più esposti nel corso della nostra vita, eppure al tempo stesso è la cosa a cui siamo meno abituati».

In quel momento mi fece riesaminare molte cose da un’altra prospettiva. Se la separazione era inevitabile, in un senso o in un altro, aveva davvero importanza il mio attaccamento ai dettagli? Aveva importanza avere tutta la mia vita pianificata, se bastava un solo piccolo imprevisto per scombinare tutto?
La risposta, era no.
Non aveva importanza, quello che stavo facendo. Onestamente non aveva nemmeno utilità. Non faceva che peggiorare le cose! Ad ogni piccola cosa fuori posto, anche tutto il resto della mia vita cadeva a pezzi come tessere di un domino! Ne valeva la pena? No, non ne valeva nemmeno la pena.

Prima che possiate chiedermelo: no, non ho sconfitto l’ansia. L’ansia rimarrà sempre in un piccolo angolo del mio cervello, rimarrà per me sempre uno stimolo a fare qualcosa. Ma è cambiato il modo in cui la affronto. Ho imparato a concedermi qualche imprevisto, di tanto in tanto, senza che mi schiacci e mi annienti come faceva prima.

Tuttavia, a costo di sembrare Lemony Snicket, la storia della mia mania del controllo non finisce qui.
C’era qualcos’altro, oltre a quello che avevo sempre percepito come relativo alla mania, che si muoveva come un pesce sotto la superficie dell’acqua. Quello di cui non mi ero reso ancora conto, era del controllo che stavo esercitando su me stesso.
Diffondendo un’immagine di me di persona impeccabile, con “tutto sempre sotto controllo”, non dovevo convincere soltanto le persone che mi circondavano, ma anche me stesso.
Dovevo convincermi di essere migliore degli altri, di saper fare le cose meglio degli altri, perché era quello che tutti si aspettavano da me. Per poter soddisfare queste aspettative, ho dovuto pagarne il prezzo.
Perché in un mondo in cui nulla può essere controllato sul serio, l’unica cosa su cui avevo voce in capitolo erano le mie emozioni. Ho perso contatto con la mia sfera emotiva, e ho imparato, con il tempo, a spegnerle. La paura, la tristezza, l’ansia, erano emozioni che non dovevo assolutamente lasciar trapelare, o avrebbero danneggiato la mia immagine.

Sono cresciuto in un piccolo paese di provincia, in un ambiente sociale estremamente maschilista e fossilizzato in sé stesso in cui essere diverso significava automaticamente essere sbagliato.
Nonostante negli anni della mia infanzia e pre-adolescenza non fossi a conoscenza della parola transgender ho sempre percepito una certa distanza tra me, che ero stato assegnato femmina alla nascita, e le mie compagne di classe, e al contempo non riuscivo a rientrare nel canone maschile dei miei compagni. Ero un outsider, sotto più punti di vista. Avevo subito un imprinting dalla società, ero vittima di un meccanismo che ora chiamiamo mascolinità tossica.
Avevo imparato a mie spese che mostrarsi non al comando, che non avere le cose sotto controllo, era da deboli, quindi mi sono comportato di conseguenza.

Per più di quindici anni, ho nascosto tutto quello che provavo in un angolo della mia testa. Sono entrato e uscito dalla depressione nel silenzio più totale. Le mie ricadute le ho vissute in silenzio.
Ho spento le mie emozioni perché mi faceva sentire potente, mi faceva sentire come se fossi in grado di fare qualunque cosa. Perché era rassicurante trovarsi davanti una persona che sembrava capace di reggere qualsiasi peso. E dopo un po’, la mia mania è diventata una dipendenza. Ero dipendente dal potere, dal controllo, da quella sensazione di onnipotenza che mi dava.
Ma, a lungo andare, non sono più stato capace di sopportare la pressione, e quando ho raggiunto il mio punto di rottura, mi sono spezzato con violenza.
E ha fatto male, molto. Ha fatto più male affrontare la realtà a vent’anni, di quanto avrebbe potuto farlo anni fa, prima che la mia mania diventasse così pervasiva nella mia vita.

Quello che sto cercando di fare, con il mio percorso di guarigione, non è perdere il controllo. Voglio poter fare esattamente quello che facevo prima, poter avere il controllo, poter essere di sostegno, poter essere anche un leader, senza però doverlo vivere come una droga. Senza dover spegnere le mie emozioni. Senza doverne pagare il prezzo.
Finalmente ho imparato ad accettare che non è da deboli chiedere aiuto, che non è la fine del mondo, se non ce la faccio da solo e mi serve una mano, e andare in terapia è stato il primo passo di questa consapevolezza.
So che nel mondo reale ci sono molte persone che credono di non aver bisogno di aiuto, perché ero uno di loro.
Ero uno di quelli che credevano di non meritare aiuto.
E invece posso assicurarvi che tutti ci meritiamo una seconda possibilità. E a volte, anche una terza, o una quarta.
Voglio dire a tutti quelli che mi stanno leggendo, in questo momento, a tutti coloro che come me soffrono di disturbo da ipercontrollo: è tutto okay.
È okay non avere le cose sotto controllo. È okay lasciarsi cogliere di sorpresa dagli imprevisti. E, soprattutto, è okay provare emozioni. Anche quando fa male o spaventa, anche quando non va tutto bene.
Non rinunciate a voi stessi. Non abbandonatevi.
Concedetevi di provare emozioni, perché anche quando ci sembra di non riuscire a gestirle, da tanto sono intense, sono comunque bellissime.
Sono vive.

E anche tu che stai leggendo, anche tu sei vivo, e stai andando alla grande.

 

Nicholas Vitiello

 

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