Skip to main content

Diamo i numeri… dell’omofobia

Come dicevamo nella precedente parte dedicata al tema, Che cos’è il BULLISMO OMOFOBICO?” (link), il bullismo omofobico concerne tutti gli atti di vessazione e di abuso, rivolti a persone percepite come omosessuali o atipiche nel loro genere o nella loro sessualità, che si fondano sull’omofobia. Consideriamo che la percentuale di persone omosessuali nella popolazione adulta varia dall’1% al 10%. La percentuale di persone che hanno contatti sessuali o affettivi con individui dello stesso sesso è nettamente maggiore della percentuale di quelli che si definiscono apertamente gay. La stima di coloro che hanno avuto almeno un comportamento omosessuale nella propria vita supera il 10%, mentre, se ci riferiamo a persone che provano attrazione stabile, affettiva e sessuale, per lo stesso sesso la percentuale varia dal 3% all’8%. Infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che il 5% della popolazione mondiale sia omosessuale, dunque statisticamente una persona su venti, altre stime dichiarano una persona su dieci. Il fatto che una persona si renda conto della propria sessualità non implica necessariamente che la esprima apertamente: tra gli adolescenti è una pratica molto infrequente dichiararsi all’interno, ad esempio, dell’istituto scolastico. Questo nascondersi è proprio legato al timore di divenire vittime di bullismo omofobico e di altre forme di discriminazione, a causa delle possibili reazioni negative sociali. Non dimentichiamoci poi che in quell’età l’adolescente sta affrontando un periodo di interrogativi e di scoperta di sé, e tutti noi sappiamo cosa voglia dire il non sapere che cosa stai vedendo quando ti guardi allo specchio. Nella maggior parte dei casi il periodo in cui le persone comprendono la propria sessualità è però proprio l’adolescenza o la prima età adulta; alcuni dati mostrano, in maniera più specifica, che l’età della suddetta scoperta si aggira tra gli 11 e i 15 anni (Saraceno, Bertone, 2003), mentre tra i 15 e i 21 anni si dovrebbe registrare lo sviluppo della consapevolezza e, auspicabilmente, dell’accettazione del proprio orientamento sessuale. Nel momento in cui avviene questa accettazione, l’adolescente, ogni volta che incontrerà una persona si troverà ad affrontare una nuova sfida: dovrà decidere se fare o meno coming out con essa.

Tutte le età che abbiamo citato cadono in un periodo della nostra vita particolarmente denso e popolato di esperienze e di momenti di crisi e maturazione: l’adolescenza. In questa situazione, naturalmente, come dimenticare il bacino più importante di queste prime esperienze, di questi primi contatti, di questo primo assaggio di quello che dovrebbe essere la crescita e l’indipendenza. Sto parlando, ovviamente, della scuola. In particolare, negli studenti vi sono dei comportamenti che vengono utilizzati come indicatori di omosessualità (Pietrantoni, 1999), quali:

  1. modalità atipiche di presentarsi esteriormente, come un taglio di capelli eccessivamente corto per una ragazza, abbigliamento definito troppo poco virile in un ragazzo;
  2. approcci assertivi con l’altro sesso, ad esempio un ragazzo che parla con le ragazze senza provarci, una ragazza che si mostra reticente o eccessivamente goliardica con i ragazzi;
  3. atteggiamenti che vengono percepiti come inadeguati, ovvero un ragazzo che fa apprezzamenti fisici su un attore;
  4. comportamenti affettuosi tra maschi che vengono percepiti come “troppo intimi”, quale potrebbe essere un abbraccio eccessivamente lungo per salutarsi ogni giorno in una occasione non particolare (sarebbe giustificato prima di una partenza, ma non come approccio quotidiano).

Le ricerche che riporto comprendono un ampio bacino sia di ragazze lesbiche che di ragazzi gay, oltre che di tutti i bisessuali troppo spesso inspiegabilmente trascurati in questi studi. Uno dei primi che si sia focalizzato sull’esperienza vissuta alle scuole superiori da giovani omosessuali e bisessuali si svolse nel Regno Unito, nel 1984, ad opera di Hugh Warren. Questa ricerca era strutturata al fine di raggiungere quattro obiettivi principali:

  1. rilevare e comprendere il tipo di pressioni che gli adolescenti omosessuali e bisessuali londinesi dovevano affrontare nelle scuole;
  2. identificare le modalità in cui venivano discriminati in classe;
  3. dimostrare il contributo positivo che potevano offrire al contesto scolastico;
  4. sensibilizzare sul fenomeno e mettere in discussione la tradizionale e prevalente connotazione negativa attribuita all’omosessualità.

La ricerca di Warren era stata così strutturata: nell’arco di un anno, erano stati compilati da giovani adolescenti omosessuali maschi e femmine 416 questionari dai quali era risultato che: il 39% (164 soggetti) di loro aveva avuto problemi a scuola, tra cui anche l’essere stati vittime di bullismo o invitati a conformarsi al ruolo di genere. Dei 154 ragazzi che hanno poi specificato il problema avuto, alcuni numeri balzano particolarmente all’occhio: il 25%, dunque 28 ragazzi e 10 ragazze, dichiarava di essersi sentito solo ed isolato all’interno dell’istituto scolastico; il 21% di loro (tra cui 29 maschi e 2 femmine che avevano dichiarato il loro genere nel questionario) aveva affermato di aver subito maltrattamenti verbali e/o insulti; il 15% (15 maschi e 5 femmine) asseriva di essere stato deriso; il 12% (18 maschi e 1 femmina) affermava di aver subito aggressioni fisiche; il 7% (7 maschi e 4 femmine) di essere stato intenzionalmente emarginato dai compagni; inoltre un altro 7% (5 maschi e 6 femmine) asseriva di essere stato costretto dai compagni a modificare il proprio comportamento.

Un’altra ricerca che avvenne nel Regno Unito fu quella di Mason e Palmer del 1996. Essa vede un campione di 4216 omosessuali e bisessuali intervistati mediante un questionario distribuito tramite pubblicazioni e riviste gay. I risultati del questionario mostrano che il 40% delle aggressioni fisiche a ragazzi e ragazze sotto i diciotto anni è avvenuto a scuola e che, nel 50% dei casi, gli aggressori erano i compagni di classe aventi circa la medesima età. Inoltre indica anche che circa un quarto dei soggetti dell’indagine era stato aggredito fisicamente dai coetanei e che poco meno della metà, il 44%, era stata in qualche modo molestata e, più di tre quarti, il 79% aveva ricevuto insulti legati all’orientamento sessuale, reale o percepito. In particolar modo, un meccanismo che alimenta l’omofobia è anche quello che vede delle vittime del bullismo omofobico non omosessuali ma che vengono prese di mira perché considerate come tali: ragazzi deboli di costituzione o carattere, oppure con atteggiamenti effeminati assolutamente eterosessuali, che però subiscono violenza con insulti che li connotano omo-sessualmente. Questi ragazzi o ragazze tenderanno a provare odio per la categoria a cui sono assimilati, alimentando atteggiamenti di intolleranza verso quegli individui così disprezzabili da aver costituito il loro incubo per tutta la pubertà.

 

Effetti del bullismo omofobico

Prima di addentrarci nello specifico del bullismo omofobico, è opportuno un piccolo chiarimento. Anche se questo articolo è pensato e dedicato appositamente all’omofobia, gli effetti negativi del bullismo, in generale, riguardano tutte le vittime a prescindere dal genere, dalle preferenze sessuali, dall’etnia e indifferentemente dai motivi che li portano a essere aggrediti e isolati. Indipendentemente dalla categoria vittimizzata, gli effetti che si riscontrano sono della medesima gravità, benché talvolta diversi. Alcune ricerche mostrano come gli effetti del bullismo si ripercuotano sulle vittime anche per decenni, tramite i ricordi delle esperienze traumatiche. In un studio del 1990, che Ian Rivers ha effettuato su 190 partecipanti omosessuali e transessuali, è emerso che il 72% di loro ha ammesso di aver marinato la scuola o finto una malattia per evitare aggressioni omofobe all’interno dell’istituto. Questo ci suggerisce come il bullismo omofobico infici non solo la vita sociale, ma anche altri ambiti della vita di un individuo, non ultimi i risultati scolastici dei soggetti vittimizzati, dal cui esito dipende a volte l’intera possibilità di carriera e di realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni. Sempre Rivers, infatti, nel 2000 ha verificato che effettivamente vi è, al di là della ragionevole evidenza che ognuno di noi possa notare, una forte correlazione tra assenteismo a scuola e aggressioni a sfondo omofobico. Gli adolescenti che presentavano il maggior numero di assenze, invero erano anche coloro che avevano subito aggressioni, minacce o pesanti denigrazioni. L’esclusione sociale nei giovani omosessuali è un’esperienza molto diffusa e pare che essa sia correlata a deficit dell’attenzione durante l’infanzia e da schizofrenia in età adulta. Conseguenze gravi come queste dovrebbero far riflettere su quanto sia importante tutelare i ragazzi che subiscono simili aggressioni ed effetti negativi, perché il prezzo di quelle che molti genitori troppo permissivi e lassisti chiamano “ragazzate” può essere a volte molto più alto di quanto si possa immaginare. Un altro fattore di rischio che tutti questi sentimenti di depressione, impotenza e isolamento sociale concorrono ad aumentare è sicuramente quello del suicidio. Nello studio emerge che il 69% di gay e lesbiche aveva contemplato il suicidio mentre erano a scuola; il 30% invece aveva effettivamente provato a suicidarsi in ambiente scolastico. A corollario di quanto appena esposto, vorrei portare uno studio che permetta di escludere che la causa dei disturbi dei ragazzi LGBT sia una causa interna, che fughi ogni dubbio che sia il fatto stesso di essere omosessuali a creare loro problemi. Una ricerca su un campione di 9188 studenti di una scuola superiore ha rilevato che gli allievi omosessuali esposti a un basso livello di aggressioni a scuola non mostravano particolari problemi di salute mentale, mentre gli studenti non etero che avevano subito aggressioni omofobe a medio/alto livello tendevano a riportare un maggiore uso di sostanze stupefacenti, maggiori rapporti sessuali a rischio e più comportamenti suicidari rispetto agli altri studenti (Bontempo, D’Augelli, 2002). Dato il doppio campione di ragazzi pur omosessuali ma non bullizzati perfettamente sereni dal punto di vista mentale e di ragazzi vittime di livelli significativi di bullismo omofobico che invece manifestavano conseguenze gravi, questi studi confermano come non sia tanto l’essere omosessuali tout court a determinare l’aumento di tutti questi fattori di rischio, bensì mettono in chiaro che è il bullismo di matrice omofobica e la vittimizzazione ad esserne la causa.

Ora, partendo proprio dai risultati dell’ultima ricerca di Bontempo e D’Augelli, che hanno lapalissianamente escluso come l’omosessualità possa essere causa di aumento di fattori di rischio, vorrei parlare di come, invece, il rifiuto sociale e l’omofobia possano diventare una effettiva causa di psicopatologia e malattia per il soggetto vittima di essi. Un parassita mentale, un tarlo sempre affamato che erode la sicurezza e la salute di una persona fino a farle perdere di vista la propria stessa esistenza. In un contesto in cui l’omofobia è di derivazione sociale, culturale e istituzionale, inevitabilmente troveremo fenomeni di omofobia interiorizzata, ovvero l’atteggiamento di odio e rifiuto interni allo stesso omosessuale, che vive uno stato di odio verso la propria sessualità e i suoi rappresentanti. Generalmente l’omofobia interiorizzata è inconscia. Queste reazioni, questi comportamenti rendono assai più difficile all’uomo adulto trovare realizzazione sentimentale nella propria vita e all’adolescente chiedere conforto e trovare negli adulti figure che lo sostengano: chiedere aiuto nel caso del bullismo omofobico e dell’omofobia, esterna o interiorizzata, equivale a porre attenzione sulla propria sessualità (reale o attribuita), con vissuti di profonda ansia e disistima. Queste realtà caratteristiche del bullismo omofobico trovano conferma nelle ricerche effettuate da Hawker (1997), che mettono in luce come il ruolo di sottomissione, diretta conseguenza dell’interiorizzazione dell’omofobia, assunto dalla vittima all’interno del gruppo dei pari ne aumenti sensibilmente la vulnerabilità alla depressione. La vittima, a seguito di una o più aggressioni verbali, fisiche o sessuali, avrà pensieri che la rimandano all’evento subìto, ricordi che riaffiorano volontariamente o involontariamente, causandole sofferenza, senso di inadeguatezza e profonda vergogna anche quando l’atto non è più materialmente in corso. Questo stato di tormento continuo provoca scoppi di collera, nervosismo, e stati di allerta nel timore che l’evento si ripeta. Infatti, gli atti di bullismo omofobico possono essere vissuti come una minaccia per la propria incolumità fisica e psicologica e possono compromettere il sentimento di sicurezza personale generando ansia, paura, reazioni aggressive e condotte di evitamento. È impossibile non riconoscere in questi sintomi un chiaro rimando alle diagnosi che si possono fare a persone che hanno vissuto un evento traumatico. Difatti, nel Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-V) troviamo che la diagnosi di PTSD, ovvero il disturbo post traumatico da stress, sia correlata a incubi, frequenti ricordi dell’evento, pensieri ripetuti che riguardano i fatti, una consistente dose di senso di colpa rivolto verso sé stessi o gli altri, senso di isolamento, ridotto interesse nelle attività quotidiane, irritabilità o aggressività, comportamenti distruttivi, ipervigilanza, soglia di spavento aumentata e difficoltà a concentrarsi e/o dormire. Anche se solitamente queste tipologie di disturbi siamo abituate a vederle addosso a reduci di guerra (nei film, poi, fa sicuramente scena), lo stato di perenne paura, stress, inadeguatezza che colpisce una persona che vive in un ambiente che la rigetta profondamente e che la umilia e denigra produce nel nostro cervello gli stessi effetti catastrofici di un trauma considerato e considerabile ben peggiore. Speriamo che questo faccia riflettere a sufficienza su quanto ferire una persona per ridere con i propri amici non valga poi il prezzo che si ha da pagare.

Un elemento che favorisce, talvolta pesantemente, l’omofobia interiorizzata è la religione. Gli adolescenti omosessuali religiosi faticano maggiormente ad accettarsi e, al contempo, a far convergere le proprie credenze religiose. Questo sentimento porta negli adolescenti un senso di disistima, conflittualità personale, stress psicosociale, difficoltà di adattamento e forte disagio. Questi comportamenti possono spingersi fino al punto in cui la vittima accetta gli atti di bullismo perché crede di meritarli, pensando che si meriti di essere punita per quello che desidera, per la sua identità omosessuale. Riassumendo, possiamo affermare che l’omofobia interiorizzata consista nel rivolgere la stessa omofobia contro sé stesso, generando una scarsa accettazione della propria persona, senso di inferiorità, vergogna, convinzione di essere malato o sbagliato ed, infine, odio verso ciò che si è. Quest’ultima facilita il processo di deresponsabilizzazione: infatti la vittima potrebbe arrivare a non denunciare e quasi giustificare il bullo, come se fosse immediatamente chiara la sua omosessualità, l’errore evidente a tutti e la causa dell’atto. Essa è un atteggiamento negativo nei confronti della propria sessualità, dovuto all’esposizione e l’interiorizzazione del disprezzo sociale, a volte fortemente manifestato anche dai propri cari, verso l’omosessualità. In una situazione simile, comprendiamo bene che importanza rivesta il contesto in cui si trova l’adolescente: è di estrema importanza la presenza di figure di riferimento positive (genitori, insegnanti, amici), che permettano al giovane di non interiorizzare l’omofobia esterna o, se già ne è vittima, di elaborarla positivamente consentendogli di accettarsi.

È importante sottolineare come non siano solo le vittime dirette del bullismo a pagarne le conseguenze, ma anche l’aggressore (Fedeli, 2007). Si è visto, infatti, che i bulli tendono a sviluppare problemi comportamentali e condotte delinquenziali in età adulta. Come la vittima contro cui si scaglia, l’aggressore tende ad avere un basso o scarso rendimento scolastico, a appartenere o provenire da uno stato di isolamento, a sviluppare disturbi dell’umore e a tentare il suicidio. Questo perché spesso atteggiamenti di odio e di bullismo derivano dalla visione di questi stessi atteggiamenti dentro le mura di casa, operate dai genitori o dalle figure di riferimento, come i fratelli. A volte i bulli stessi provengono da situazioni di disagio o sono essi stessi omosessuali che, vittime della società, hanno imparato a ritagliarsi un quadratino di posto in essa affermando la loro “normalità” tramite la violenza contro le persone come loro.

In conclusione, una società o un istituto omofobico mette gli adolescenti nella condizione di dover decidere se nascondersi ed evitare atti di bullismo fisici e/o verbali, oppure esporsi e correre il rischio di subire le susseguenti minacce e rischi. Per effettuare tale scelta, il ragazzo necessita di comprendersi ed accettarsi in primis; ciononostante, per fare questo ha bisogno di figure che lo sostengano, rimandandogli quell’immagine positiva di sé che la società in questione gli nega. Teniamo anche conto che questi dati raccolti sono esclusivamente riferibili a realtà occidentali e che, per quanto ci riguarda, ci fregiamo di essere il baluardo della civiltà. Consideriamo che vi sono parti del mondo dove non solo non è accettata l’omosessualità, ma dove è ancora un infamante reato punito in maniera penale e, talvolta, anche capitale.

Jacopo Stringo

 

 

Bibliografia:

  • Buccoliero E., Maggi M., Pietrantoni L., Prati G., Il bullismo omofobico. Manuale teoricopratico per insegnanti e operatori, Milano, Franco Angeli, 2010.
  • Collovati R., Il bullismo sociale, Roma, Armando editore, 2010.
  • Rivers I., Bullismo Omofobico: conoscerlo per combatterlo, edizione italiana a cura di Lingiardi V., il Saggiatore, 2015.

Leave a Reply