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Estraneo è colui del quale non si può dire di
conoscere, al di fuori della comunicazione con lui,
cosa pensa e come vive il rapporto con noi, come
vede le cose che si condividono, quali sono le sue
intenzioni, quale contributo può dare alla relazione
[…] L’estraneità, quindi, comporta la
comunicazione e lo scambio di informazioni come
condizione necessaria per la conoscenza.
Comporta una lotta dura e, per certi versi senza
quartiere, con gli stereotipi, le conoscenze non
fondate sullo scambio comunicativo, i pregiudizi, le
anticipazioni di ruolo, i giochi di appartenenza, le
credenze istituite, i legami fondati su condivisioni
implicite di ideologie, credi, bandiere, civiltà.
L’estraneo è l’amico ignoto.

{ Renzo Carli }

 

Quando ci volgiamo verso la cronaca di tutti i giorni, capita a volte di sentir nominare il cyberbullismo, il bullismo a scuola, atti violenti da parte di giovani verso altri giovani appartenenti a minoranze etniche e così via. Purtroppo, troppo di rado si sente parlare di una piaga che molti hanno sperimentato sulla loro pelle, ma che passa quasi sempre sotto l’uscio. Sto parlando del bullismo omofobico, una di quelle (insensate) forme di aggressività e discriminazione giovanile che colpisce altri ragazzi solo per delle caratteristiche, esteriori o interiori, fondamentalmente futili.

Prima di parlare specificatamente di quello omofobico, tuttavia, per capire meglio di cosa si tratti, reputo meglio fare un rapido excursus di tutto quello che riguarda il bullismo in generale.
Il bullismo viene definito da Peter Smith e Sonia Sharp come un sistematico abuso di potere: “ci saranno sempre, nei gruppi sociali, rapporti di potere fondati sulla forza, sulle dimensioni fisiche, sulle abilità, sulla personalità, sull’incisività del numero o su una gerarchia riconosciuta. Del potere si può abusare: la definizione esatta di quello che costituisce tale abuso dipende dal contesto sociale e culturale, ma è inevitabile quando si esamina il comportamento umano. Se l’abuso è sistematico, ripetuto e intenzionale, bullismo sembra il temine adatto” (P. K. Smith, S. Sharp, 1994). Non c’è alcun dubbio sul fatto che il bullismo sia un abuso di potere, caratterizzato dalla sistematicità e fondato sull’intenzionalità da parte dell’aggressore riconosciuto. Esso è un fenomeno che coinvolge almeno due individui, il bullo e la vittima, in una relazione in cui il primo attua dei comportamenti dannosi che possono essere fisici, verbali o psicologici, nei confronti del secondo. Ma, più nello specifico, possiamo parlare di bullismo quando vengono soddisfatti tre criteri:

  1. Intenzionalità, difficile da cogliere in quanto nessuno di noi è in grado di leggere nella testa altrui, è tuttavia un criterio molto importante per distinguere quando un atto aggressivo è legato o meno all’irruenza del momento o all’impulsività dell’individuo. L’intenzionalità è possibile riconoscerla dal fatto che l’episodio si ripeterà nel tempo in quanto è sistematico;
  2. Sistematicità, appunto, ovvero gli atti di bullismo tendono a ripetersi con regolarità. Possiedono inoltre un certo livello di organizzazione, in quanto l’aggressore sceglie la vittima più consona, magari esclusa socialmente o inerme, il comportamento aggressivo da adottare, i momenti ed i luoghi più adatti;
  3. Relazionalità, poiché anche se nell’immaginario collettivo si vede il bullismo come una folie à deux tra il bullo e la vittima, in realtà è un atto relazionale in cui il bullo soddisfa il proprio bisogno di intimidire e dominare un gruppo di individui in una vera e propria folie à plusieurs, ognuno dei quali all’interno della dinamica possiede e svolge un proprio rigido ruolo.

Legati a questi tre criteri, nel fenomeno del bullismo si verificano due effetti importanti: il primo è la diffusione della responsabilità (J. M. Darley, B. Latané, 1968), chiamato anche effetto spettatore, consistente nel fatto che, se si è in più persone a commettere l’azione aggressiva, la responsabilità viene distribuita e ci si sente meno direttamente responsabili per l’accaduto; il secondo, invece, è il contagio sociale, ovvero l’aumento della probabilità che un’azione offensiva o un insulto venga ripetuto da terzi. Non dimentichiamoci inoltre che il bullo gode di un certo “vantaggio” sulla sua vittima, specialmente in termini di maggiori abilità o di migliore status sociale. Difatti quest’ultimo può contare su compagni consenzienti che lo aiutano in maniera diretta o indiretta.
Un fattore determinante per la sistematicità della dinamica è la deindinviduazione (Zimbardo, 1969) della vittima. Essa consiste appunto nello svalutare pesantemente il capro espiatorio, indebolendo la sua identità personale e lasciando via libera al bullo e ai suoi gregari di inibire il senso di colpa, accusando la vittima di essere ella stessa la causa degli atti di bullismo che subisce. È precisamente da quest’ultimo punto che vediamo originarsi una svalutazione della povera vittima e un’attribuzione di colpa che viene diretta dal carnefice verso l’esterno, scaricando deliberatamente sull’altro la responsabilità della violenza (“se l’è cercata”).
Ovviamente, dobbiamo considerare che vi sono dei fattori scatenanti l’atto del bullo. Com’è prevedibile, tutte le forme di bullismo si assomigliano, un po’ come le famiglie felici di Anna Karenina, e tendono ad essere inquadrate da un nodo centrale attorno a cui orbitano: la diversità. A differenza dei soggetti bullizzati, che sono multiformi e infelici a modo proprio. Ora appare chiaro più che mai come l’essere una vittima di bullismo consista nel possedere determinate caratteristiche, considerate devianti dai canoni sociali imposti. Queste peculiarità possono essere più o meno evidenti, si pensi alla differenza che intercorre tra il colore della pelle oppure una caratteristica interiore come l’omosessualità. Essere vittima di bullismo significa anche, come molti ben sapranno e avranno vissuto sulla propria pelle, essere spesso etichettati. Per etichetta1 (E. Lemert, 1951; H.S. Becker, 1963 et al.) si intende un marchio, un nomignolo o un’identità applicata da individui terzi, quali ad esempio i compagni di classe, che definisce socialmente la persona. Una volta acquisita, è estremamente difficile liberarsi di un’etichetta. Essa tende ad appiccicarsi a te come una seconda pelle, un’altra faccia che chiunque entra in contatto con te impara a vedere, senza andare oltre.
Soprattutto per quanto riguarda le vittime di bullismo, questo soffocante e oppressivo fenomeno rischia di avere la meglio su di loro, sul loro senso individuale e di sopraffarle. La diversità può assumere varie caratteristiche, seppur le più comunemente note siano quelle che riguardano il colore della pelle, l’etnia, la religione e l’aspetto fisico. Tuttavia, come abbiamo detto, essa può presentarsi anche sotto forma di tratti comportamentali o atteggiamenti che divergono dall’immagine socialmente accettata del ragazzo o della ragazza, fatto che favorisce l’essere oggetto un atteggiamento discriminatorio.
Lungi dall’essere solo chiacchiere o “esagerazioni”, la conferma di questo fenomeno può essere tratta dal lavoro di Susan Askew e Carol Ross, studio che mette in luce come gli epiteti a sfondo sessuale, presenti all’interno delle scuole, siano dovuti al mancato soddisfacimento da parte di alcuni ragazzi alle aspettative legate al ruolo di genere (S. Askew, C. Ross, 1988). Ad esempio, in un ambiente prettamente maschilista, dove il ruolo di genere maschile ha delle definite caratteristiche in cui la virilità è non solo un dato di fatto comportamentale, ma anche una componente sociale che si deve guadagnare, distinguersi e distanziarsi indubitabilmente dal mondo femminile appare necessario e sostanziale. Un ragazzo che non ha queste peculiarità, che appartiene biologicamente al gruppo dei maschi ma “non fa niente per meritare di appartenervi”, pertanto, verrà visto come diverso, sbagliato e, in definitiva, inferiore (ecco dove subentra in embrione quel fattore di deindividuazione che lava le coscienze di tutti i bulli). Ora, quello che scatta nella mente degli aggressori è un meccanismo molto semplice: l’oggetto di odio, sia esso l’omosessuale o anche semplicemente il debole o l’effeminato, qualità che NON equivalgono a un differente orientamento sessuale, diventa predisposto all’essere utilizzato come capro espiatorio.

Abbiamo detto che in ambiente maschilista occorre distanziarsi dal mondo femminile, no? Ebbene, gli omosessuali, inspiegabilmente equiparati, vengono utilizzati efficacemente dai bulli per affermare la propria virilità e l’immagine di genere che quell’ambiente sociale si aspetta che ricoprano. Tramite gesti di odio verso gli omosessuali, gridano al mondo “Ecco, noi non siamo come loro!”. Tale processo ci evidenzia come in quella tipologia di ambiente culturale la virilità e quindi l’uomo, che rientra nei canoni posti, si collochino, inconsciamente o consapevolmente, ad un livello superiore rispetto alle donne e alla femminilità. Difatti, stessi episodi di violenza, fisica o sessuale, si originano nel caso delle aggressioni alle donne che costituiscono la triste quotidianità delle nostre vicende di cronaca: una trama di possesso e, in definitiva, di esaltazione dell’immagine di uomo che non deve chiedere mai. Ne consegue che in una società siffatta non vengano accettati o, come per la femminilità, rivestano un ruolo inferiore nella gerarchia sociale gli uomini che amano altri uomini.
Ma, in una simile società, che ruolo rivestono invece le omosessuali donne? Quale ottica le accoglie? Chiaramente, tutta l’analisi che abbiamo appena fatto dimostra come uno status di inferiorità spetti non solo agli uomini omosessuali, ma anche alle donne, e non si parla solo di soffitto di cristallo2. Per quanto riguarda il mondo delle eredi di Saffo, esse hanno assunto agli occhi del Maschio sociale una doppia rappresentazione: o mascoline e poco attraenti, o femminili ed eccitanti. Questa duplicità nacque dalle rappresentazioni dell’immaginario erotico maschile successivamente riprodotto nella pornografia. Una spiegazione per questo evento può essere forse cercata in una società fondamentalmente sessista, in cui spesso se la sessualità femminile non è fruibile dagli uomini non risulta interessante, una società dove di frequente l’immagine della donna è oggettualizzata e sovrapposta alla sua figura di fulcro dell’attrazione sessuale o di madre e, quando esce da tali schemi, risulta non socialmente importante. Questi meccanismi, che già sono in atto per una donna eterosessuale, vestiti su una donna omosessuale assumono un doppio effetto: se già una ragazza di per sé ha delle difficoltà ad affermarsi in una società maschilista, quale purtroppo è ancora di fatto quella occidentale, una lesbica viene ancora di più sottostimata. Pur non vivendo nella maggior parte dei casi una situazione di rifiuto sostanziale fra pari come quello degli uomini, socialmente il rapporto con il cosiddetto “sesso forte” le pone in una serie infinita di difficoltà nella propria affermazione e autodeterminazione. Molte ragazze vivono una forte crisi, cercando di nascondere questo loro lato o di affermarlo, consapevoli però di quale accoglienza verrà loro riservata se scegliessero la seconda via. Anche per l’omosessualità femminile lo stereotipo facile, l’insulto, la paura e la minaccia sono all’ordine del giorno e, oltretutto, drammatica è anche la poca importanza che viene loro data nella concezione popolare: quando si parla di omosessualità, l’immediato rimando della gran parte delle persone è un’immagine mentale di un effeminato in tanga piumato; raramente ho conosciuto persone che collegassero immediatamente la parola con la controparte femminile. Questa poca attenzione, questa mancanza si riflette enormemente sul mondo delle ragazze e donne che rivestono un ruolo equamente importante a tutti gli altri, in quella grande L che costituisce l’iniziale del nome della nostra comunità.

Tirando le fila…
Riassumendo, pare evidente che il ruolo di genere e la società che lo definisce rivestano una funzione pregnante nel pensiero e nell’attuazione dei comportamenti omofobici. Non a caso l’atipicità nei bambini viene spesso condannata, sebbene in media maggiormente nei maschi: un bambino che gioca con delle bambole appare agli occhi della società “strano” e “sbagliato”. Dunque possiamo dedurre che l’atipicità, cioè le azioni che deviano dai canoni imposti, sia maggiormente accettata nel genere femminile, che pare meno condannato nello svolgimento di attività considerate prettamente maschili, si pensi per esempio allo sport del calcio. Il genere maschile, al contrario, risulta più discriminato su questo versante, considerato il clima scandalistico che circonda un bambino dedito a passatempi propri del genere femminile. I maschi, quindi, subiscono una pressione sociale che tende a forzarli a nascondere o reprimere la loro atipicità, con conseguenze disastrose e devastanti su di loro, che preferiscono una forzata adesione al canone imposto della società al posto della emancipazione dei propri istinti e interessi. Questa costrizione è legata al fatto che, come abbiamo visto, la definizione di mascolinità implica il non essere omosessuale e il distanziarsi dai modi e dal mondo femminile, dunque comporta un bisogno di dimostrare di essere maschi, una necessità di allontanare da sé ciò che è non maschio. A volte questo prendere le distanze può assumere le forme di una denigrazione verbale o di un atto violento, quasi a voler dichiarare pubblicamente e socialmente che non vi è nulla in comune, che non può esservi accettazione per un individuo che non ricalca, nei comportamenti, la prestigiosa virilità che ci si aspetta dalla figura maschile.

L’atto discriminatorio, a volte, può compiersi proprio per allontanare da sé i sospetti, nel tentativo di celare quelle proprie caratteristiche che non combaciano con il ruolo sessuale. Molti uomini vivono l’omofobia come un meccanismo di rivalsa, un “se non posso essere libero io di amare un uomo non puoi nemmeno tu”, oppure la sfruttano proprio perché non accettano la propria condizione o non reggono la pressione sociale, delegando il compito di conquistarsi un posto nell’Olimpo Alfa alla pubblica e violenta negazione e denegazione dell’omosessuale. Gli atteggiamenti più negativi vengono espressi verso gli omosessuali dello stesso sesso, e nei maschi questi comportamenti avversi si presentano statisticamente in maniera maggiore che nelle donne. Ciò, in particolare, abbiamo visto essere dovuto a tre motivi psicosociali legati alla mascolinità:

  1. la socializzazione di genere maschile è più vincolante e prevede meno variabilità: in tal senso si intende che il rapporto tra ragazzi prevede dei contatti limitati e specifici. Questo significa che due uomini con contatti differenti o particolarmente prolungati (quindi devianti dal modello del ruolo sociale) verranno visti come omosessuali tout court, pur non essendolo in senso stretto;
  2. l’adesione da parte degli uomini al ruolo di genere tradizionale garantisce potere, prestigio e popolarità, preservando dal finire nel gorgo del soffitto di cristallo. Diviene dunque più vantaggioso adeguare i propri comportamenti a quanto richiesto dalla società;
  3. ad aggravare la situazione che abbiamo appena presentato c’è un’ulteriore fattore sociale da sottolineare: come abbiamo detto, negli uomini eterosessuali il rifiuto dell’omosessualità è percepito come in linea con il ruolo di genere. Questo perché per essere femminili non è necessario non essere lesbiche, mentre essere mascolini, per un/una omofobo/a, significa non essere gay, o comunque distanziarsi nettamente da questo mondo e dal mondo femminile.

In conclusione di questa rapida disamina, notiamo nuovamente come la società tradizionale occidentale, e quello che essa potenzialmente richiede, abbiano un ruolo e un effetto notevole sulla generazione e sulla promozione di comportamenti d’avversione non solo al mondo omosessuale, ma alla diversità tout court. Poi non stupiamoci se ragazzi, pur giovani, adottano simili comportamenti: l’odio per la diversità, sia essa razziale, religiosa o altra, sta diventando la bandiera di quasi tutti i partiti che guideranno il mondo del domani. Ma rifiutare l’altro, rifiutare il diverso significa a conti fatti rifiutare la conoscenza, rifiutare l’evoluzione, rifiutare il cambiamento generativo.
Siamo stati per secoli e ancora lo siamo pensatori immersi in una filosofia greca e utilizziamo numeri e metodi di calcolo arabi, di quegli stessi arabi che ora ci ostiniamo a voler chiudere fuori dal nostro mondo. Rigettare tutto ciò è rigettare noi stessi e la nostra stessa esistenza, poiché anche noi siamo diversi agli occhi del prossimo, agli occhi dell’“amico ignoto” in piedi di fronte a noi.
Spero che questo articolo vi abbia fornito del materiale su cui riflettere o ritrovarvi, per sapere che non siete soli, che non siamo soli.

 

Jacopo Stringo

 

1_ Strettamente legato con il concetto di etichetta, spesso, se ne trova un altro che ritengo fondamentale curare in questo contesto: mi riferisco allo stereotipo. Non tutti gli omosessuali di genere maschile hanno atteggiamenti che rimandano al mondo femminile; viceversa non tutte le lesbiche hanno dei comportamenti che ricalcano quelli del mondo maschile. Ma cos’è uno stereotipo? Uno stereotipo è un insieme di generalizzazioni (Tajfel, 1981) e di credenze abbastanza rigido. È un’immagine mentale semplificata al massimo (Stallybrass, 1977) delle caratteristiche ritenute tipiche di un gruppo o categoria sociale. In particolare gli stereotipi sono dei processi cognitivi che consentono alla mente di semplificare e sistematizzare informazioni e giudizi più rapidamente, rendendo il processo di categorizzazione cognitivamente meno impegnativo.

2_ Termine che deriva dall’espressione inglese “glass ceiling”, composta da glass, vetro, e ceiling, soffitto. Esso rappresenta l’insieme di tutti quegli ostacoli, quelle barriere sociali, culturali e psicologiche che si interpone come un impedimento invalicabile al conseguimento della parità dei diritti e alla concreta possibilità di fare carriera nel campo del lavoro per categorie storicamente soggette a discriminazioni. La sua principale caratteristica, che contribuisce a spiegare il suo nome, è quella di essere all’apparenza invisibile, fatto supportato dall’evidente disconoscimento che circonda tale argomento.

 

Bibliografia:
_ Batini F., Santoni B., L’identità sessuale a scuola. Educare alla diversità e prevenire l’omofobia, Napoli, Liguori editore, 2009.
_ Buccoliero E., Maggi M., Pietrantoni L., Prati G., Il bullismo omofobico. Manuale teoricopratico per insegnanti e operatori, Milano, Franco Angeli, 2010.
_ Cavazza N., Palmonari A., Rubini M., Psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, 2012.
_ Collovati R., Il bullismo sociale, Roma, Armando editore, 2010.

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