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Da studente universitario è sempre difficile decidere quanti e quali esami sostenere, soprattutto quando hai una scelta in una regola accademica limitata. La mia era tra “English Linguistics for Anthropologists” oppure “Ulteriori Conoscenze Linguistiche”. Forse avrei potuto cavarmela con qualche certificazione di lingua ma alla fine ho deciso di optare per la prima tra le due voci. Incuriosito dal semplice fatto che il corso (per la precisione un laboratorio) fosse in inglese, non avrei mai immaginato che una parte degli insegnamenti sarebbe stata dedicata al tema del linguaggio e gli studi di genere. Di questo si è occupato il professor Federico Sabatini (Professore di Anglistica presso l’Università degli Studi di Torino) che con grande professionalità e delicatezza ci ha accompagnato in un viaggio su come il linguaggio possa influenzare intere società e culture, su come il linguaggio possa essere utilizzato come arma o come strumento di pace. Durante il corso il professor Sabatini si è soffermato molto a riflettere sulle parole che quotidianamente si usano per definire donne e omosessuali, facendoci notare come esse siano intrise di una forte, e mai del tutto superata, componente patriarcale. Queste parole sono talmente radicate nella cultura del nostro Paese da essere ormai considerate la norma, alle volte strappano perfino un sorriso. Tuttavia, le ferite che lasciano sulla pelle delle persone a cui vengono rivolte sono spesso davvero incancellabili.

A questo punto lascerei spazio alle esaustive risposte del professor Sabatini per fare ulteriore luce sul fantastico mondo del linguaggio o, ancora meglio, dei linguaggi:

Come spiegherebbe di cosa si occupano la linguistica antropologica e i gender studies a persone che non ne hanno alcuna conoscenza?

La linguistica antropologica è un ramo della linguistica che studia il ruolo del linguaggio all’interno di specifici contesti e gruppi socioculturali o, ancor più semplicemente, i rapporti vicendevoli tra linguaggio e culture. Anzi, forse è meglio parlare, appunto, di “linguaggi” al plurale, visto che non si intende solo quello verbale ma qualsiasi segno o mezzo capace di instaurare un rapporto comunicativo. In quel senso, la cultura crea, plasma e modifica il linguaggio e, al tempo stesso, il linguaggio ha lo stesso potere e la stessa influenza nei confronti della cultura. Per questo motivo, per me, una separazione dei due è davvero difficile, se non impossibile.

Il gender, ad esempio, è uno dei macro-temi che possono essere studiati e approfonditi in questa prospettiva, corroborata poi, infatti, dai gender studies in senso più ampio. Si tratta di un vasto campo di studi interdisciplinari in merito alla costruzione dell’identità di genere. Derivano essenzialmente dai women’s studies e si sono sviluppati sistematicamente negli anni ‘90 in ambito anglosassone quando si iniziò a trattare di genere, sessualità, performatività in svariate discipline e in diversificate tipologie testuali, dal linguaggio quotidiano, a quello politico, fino alla letteratura e al cinema. Oltre alla differenza tra “sesso” e “genere”, i gender studies si concentrarono soprattutto sull’aspetto di costruzione sociale e culturale del femminile e del maschile, della femminilità e della maschilità (per poi dare origine anche ai queer studies), alla luce di testi seminali come quelli di Butler, Lacan, Irigaray, Foucault, Kristeva eccetera.  Simone de Beauvoir, nei suoi studi femministi, diceva che “donna non si nasce, ma si diventa”. Ecco, più o meno è questo. Quali sono le rappresentazioni della identità di genere in specifiche società e culture? Quali i diktat di una visione egemonica su ciò che è femminile e maschile? Quali gli stereotipi imperanti? Come sono cambiati i ruoli di genere e dunque le aspettative socio-culturali legate al maschile e al femminile? Quali sono i tabù legati alla sessualità che, ad esempio, certe culture nascondono attraverso il linguaggio eufemistico? Potrei andare avanti all’infinito… pensi che la mia tesi di laurea, discussa nel 1998, era proprio su questi temi applicati al “genere autobiografico alla luce del gender” (questo era il titolo)  in Lytton Strachey e Virginia Woolf. Da allora non ho mai smesso di interessarmi al tema e dunque forse è meglio che mi fermi qui [ride]!

 

In che modo linguaggio e parole sono importanti nel trattare argomenti o nel riferirsi a qualcuno? Come possono influenzare o perpetuare stereotipi?

Direi che l’importanza e l’influenza del linguaggio, anche delle parole apparentemente più insignificanti, sia immisurabile e ahimè troppo sottovalutata, persino in un’epoca come questa quando, invece, molto si parla del potere persuasivo del linguaggio. Ma, evidentemente, la riproduzione e continua riproducibilità del discorso in questione è un’arma a doppio taglio e porta spesso a quello che non esito chiamare ottundimento cognitivo dato proprio dall’eccesso di informazione o dall’iper-comunicazione che purtroppo porta a una assenza di comunicazione vera. Detto questo, nei miei corsi, così come nella mia ricerca, faccio spesso riferimento al testo seminale di Austin (How to do things with words) e al fatto che un atto linguistico contiene in sé molti elementi, i quali vanno appunto a “creare cose”, realtà vere e proprie. La locuzione si accompagna infatti alla illocuzione (le intenzioni dei parlanti) e alla perlocuzione (gli effetti su chi riceve il messaggio) e dunque una singola parola può assumere significati sempre diversi. Allo stesso modo, un altro testo che uso sempre nei miei corsi è quello di Dwight Bowlinger. Si chiama Language. The loaded weapon e, anche se del 1980, è ancora sorprendentemente attuale. Il linguaggio è un’arma ed è una arma carica, in ogni momento. Sta a noi saperlo usare o saperlo leggere con occhio critico e responsabile per non rischiare pericolose conseguenze. Bowlinger parlava, in sintesi, del fatto che il linguaggio non può mai essere neutrale. E credo che la veridicità di questa affermazione sia sotto i nostri occhi continuamente.

Quanto agli stereotipi, sì senza dubbio, il linguaggio ha un ruolo determinante. Stereotipo vuol dire “immagine rigida”, una interpretazione ipersemplificata e cristallizzata di un concetto che poi si fatica a modificare, come se si fosse scolpita per sempre o, appunto, stampata nella mente. E allora diventa “pre-concetto”, qualcosa che viene “prima” del nostro pensiero, anticipando il nostro giudizio verso qualcosa o qualcuno solo perché associamo da subito alcune caratteristiche che abbiamo interiorizzato nel tempo. Quanto al genere, penso ora al linguaggio sessista, pensiamo a quante espressioni banali e ironiche ci entrano in testa sin dall’infanzia, come proverbi, battute, modi di dire: “Il sesso debole”, “donna al volante pericolo costante”, “dire donna dire danno”, “volere la botte piena e la moglie ubriaca”. Sembrano sciocche, lo so, finanche divertenti, ma il loro potere cognitivo e persuasivo è invece smisurato. Da lì, il passo verso la discriminazione delle donne è breve e comporta l’implicito ruolo sottomesso della donna e la legittimazione, seppur a livello inconscio, dell’abuso. Che sia verbale o fisico – fino alle estreme conseguenze – è sempre un abuso e un abuso è sempre una forma di violenza che ha una sua origine ben precisa lungo una concatenazione indissolubile di cause.

 

Sentiamo spesso parlare di “politically correct”, qual è il suo pensiero a riguardo?

Il politically correct è un atteggiamento linguistico e sociale che nasce sì con buone intenzioni ma che, nel tempo, si è, diciamo, logorato ed è diventato una sorta di maschera per nascondere buonismo e, nei casi peggiori, ipocrisia. Seguendo certe convenzioni socio-culturali, si è imparato che certi termini o certi atteggiamenti sono sconvenienti, e si rischia per passare per “cattivi”. Dunque, il disabile è diventato “diversamente abile”, ad esempio, e la persona nera è diventata la persona “di colore”. Ecco, in entrambi i casi il riferimento è sempre la norma egemonica: di colore indica semplicemente “non bianco”, e “diversamente abile” diventa un eufemismo lusinghiero che sottolinea di nuovo la diversità (diversamente da cosa?). In entrambi i casi sarebbe preferibile utilizzare espressioni oggettive così come “persona con disabilità” o “persona afro-americana”. Ma la lista è lunga e il concetto è molto sfaccettato, sempre. Un eccesso di politicamente corretto senza dubbio porta a creazione di immagini distorte, esageratamente “positive”, anche quando invece c’è del negativo. L’eufemismo è un modo di dire “meglio” la stessa cosa, e se sentiamo l’esigenza di dire meglio quella cosa significa che ce ne vergogniamo o che quella cosa è ancora un tabù. E questo tipo di linguaggio alimenta soprattutto gli stereotipi impliciti, quelli che sono nelle nostre menti e di cui, però, spesso non ci accorgiamo. Non è un caso che certi populismi abbiano ricevuto così tanto consenso di recente proprio attaccando il politically correct e facendo del contrario un loro punto di forza, spacciato per “schiettezza”.

 

Durante il corso ha presentato le Sue ricerche sul linguaggio nel doppiaggio, Le andrebbe di condividere brevemente la Sua ricerca e fornirci degli esempi?

Anche questo rientra nel concetto di politcally correct, anche se nella mia ricerca l’ho voluto spesso definire come una sorta di “discorso silenziatore” in merito al tema dell’omosessualità. Non possiamo parlare di censura vera e propria ma di alterazione, appunto attraverso eufemismi, di aspetti legati ai mondi, alle relazioni e alle sessualità lgbtq+.  Nel doppiaggio italiano è un segnale che dimostra come l’omosessualità sia ancora vista come un tabù, qualcosa di scomodo o pruriginoso, qualcosa che non ci aspetta che tutti accettino. Nella mia ricerca ho analizzato il doppiaggio di vari film a tematica gay (maschile) e i risultati hanno mostrato che spesso nelle versioni italiane le espressioni legate al sesso omosessuale tra maschi vengono mitigate con eufemismi a volte al limite del ridicolo. Ad esempio, nel film I love you Philip Morris una espressione come “Let’s fuck!” viene resa con “Facciamo!” al posto del più scontato “Scopiamo!”, naturale e comunemente utilizzato al cinema per descrivere il sesso eterosessuale. Oppure tutti i riferimenti al sesso orale tra i due protagonisti (“blow job”, “to suck” ecc.) sono rese con espressioni addirittura insolite come “fare un lecca lecca” o uno “yo-yo”, entrambe ad esempio pertinenti alla sfera della fanciullezza e del gioco, come a voler ricondurre l’omosessualità (in questo caso specifico) a una “fase” prematura e giocosa della esistenza. Sono le espressioni che ho chiamato “eufemismi iperbolici” (che sarà anche il titolo del volume che pubblicherò sul tema), ossia delle esagerazioni linguistiche vere e proprie mirate a ridurre ed edulcorare l’impatto del concetto di “sesso gay” nell’audience, facendoci capire come questo sia ancora visto come un tabù che rischia di offendere chi va al cinema. Questo processo di traduzione silenziatrice (interculturale più che interlinguistica) non avviene in casi di sesso eterosessuale e, soprattutto, in questi film il linguaggio invece esplicitamente offensivo e omofobico verso i protagonisti gay non viene affatto mitigato, anzi, a volte addirittura intensificato. E questo non fa che rafforzare il pregiudizio e dunque la possibile discriminazione. E non avviene solo nel cinema: in altri miei lavori ho riscontrato lo stesso “silenziamento”, più o meno totale, anche nell’ambito museale o legato al marketing. Dunque, è un problema di ampio raggio: considerare l’omosessualità – nei suoi risvolti sentimentali e sessuali – come qualcosa che “non si può dire” ci fa comprendere amaramente che, nonostante tutto, non siamo completamente distanti dal processo di Oscar Wilde a proposito di “quell’amore che non osava pronunziare il suo nome”.

 

 

Dhevan

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