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I disturbi alimentari hanno per lungo tempo fatto parte della mia vita.

Sono arrivati lentamente, quasi di soppiatto, o forse c’erano sempre stati e io non me n’ero quasi accort@.

Sono arrivati e sono rimasti a lungo.

Molto, troppo a lungo.

Di sicuro abbastanza per rovinare parte della mia esistenza e per rendere un inferno quella di chi mi stava accanto (ricordo ancora con un brivido il giorno in cui mia madre, al culmine della disperazione e dell’impotenza, mi trascinò davanti allo specchio chiedendomi quasi in lacrime se mi vedessi “bell@” in quel corpo che ormai non aveva addosso nemmeno più un grammo di carne).

Ora che quei brutti momenti sono passati mi sento sicuramente molto meglio ma non posso negare che qualcosa di loro mi sia comunque rimasto dentro e che dovrò probabilmente conviverci per il resto della mia vita.

Lo dico senza troppa vergogna, consci@ che non ci sia nulla di riprovevole nel parlare di un periodo molto difficile della propria esistenza e neanche nell’ammettere che sì, ci sono state volte in cui ho seriamente temuto di ricascarci.

Le vecchie abitudini sono dure a morire, ma si può cercare di tenerle a bada con pazienza e, nel mio caso specifico, mettendo nero su bianco i miei pensieri.

Lo farò anche adesso, in questo articolo che non vuole certo essere un trattato di scienza o di psicologia, ma solo un piccolo punto di partenza per aprire le porte a una riflessione più ampia e articolata.

 

DCA

I disturbi del comportamento alimentari (o, appunto, DCA) sono malattie molto complesse e “determinate da condizioni di disagio psicologico ed emotivo“.

A tutt’oggi non è possibile offrire risposte assolutamente certe sulle cause – o per meglio dire fattori di rischio – che possono portare un soggetto a sviluppare questi disturbi.

Quel che è certo è che anoressia, bulimia e binge eating disorder (anche detto disturbo da alimentazione incontrollata) possono avere conseguenze davvero molto drammatiche sulla salute psicofisica di chi ne è affetto.

Nei casi più gravi, purtroppo, la persona affetta da queste patologie può anche rischiare di perdere la vita.

Lungi dall’essere un problema esclusivamente femminile, i DCA non risparmiano davvero alcuna categoria sociale.

Nei soli Stati Uniti, ad esempio, si calcola che siano circa 30 milioni le persone costrette a fare i conti con queste patologie.

Un numero davvero spaventoso, che comprende individui di ogni età, genere e provenienza.

E che colpisce con particolare durezza gli appartenenti alla comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex, asessuali).

 

Ricerche

Jennifer Henretty è una psicologa clinica specializzata in terapia familiare e disordini alimentari.

Insieme alle colleghe Janell Mensinger, Janeway Granche e Shelbi Cox, Henretty ha da poco pubblicato uno studio incentrato proprio sull’incidenza dei disturbi alimentari all’interno della comunità LGBT+.

La ricerca, che è stata pubblicata all’interno della rivista medica International Journal of Eating Disorders, è stata condotta su un campione di 2.818 individui affetti da DCA.

Di questi, ben 471 (il 17%) facevano parte del mondo queer e – come ha fatto notare Henretty – un numero piuttosto consistente di loro era formato da persone transgender, transessuali o non binary.

Che, proprio a “causa” del loro genere, faticano si ritrovano spessissimo ancora più in difficoltà e rischiano spessissimo di non poter accedere a cure e a trattamenti adeguati.

 

Rispetto e aiuto

Se seguissi il mio istinto, molto probabilmente questo articolo lo concluderei senza dire nient’altro.

Non c’è in effetti molto da aggiungere, se non una piccola considerazione peraltro già contenuta nel titolo di questo paragrafo.

Le persone non sono numeri.

Le persone non sono dati.

E no, non è una colpa ammalarsi e stare male.

Non lo è e non dovrà mai esserlo.

I disturbi alimentari esistono, ma prima di essi vengono gli esseri umani che si ritrovano a confrontarsi con essi e che meritano rispetto, comprensione e aiuto.

E’ un discorso che vale per tutt*, ma che assume un’importanza ancora maggiore nel caso di individui che già normalmente si trovano costretti a fare i conti con lo stigma del pregiudizio e della non accettazione da parte della società.

Non è una colpa ammalarsi.

L’unico vero sbaglio è non prestare adeguato soccorso a chi si trova in un momento di grande difficoltà.

 

 

Nicole Zaramella

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