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Ogni esistenza lesbica è stata una resistenza in epoca fascista anche se, francamente, non so quanto fossero coscienti della loro condizione durante l’oppressione. Posso però affermare con sicurezza che già mantenersi in vita, a quell’epoca, è stata una vittoria.

Partendo dalla Germania, prima dell’avvento del nazismo, la condizione degli omosessuali,in generale, era idilliaca: esistevano molte associazioni, giornali e luoghi di incontro. Per le lesbiche erano stati aperti locali che, più che altro, selezionavano le loro avventrici in base alla classe sociale più che per la libertà d’amare. Il “Mali un Igel” era il meglio del meglio e ospitava attrici, intellettuali, aristocratiche e donne che lavoravano in ambito scientifico. Per le commesse o le impiegate era meglio rivolgersi al “Violetta”, abbordabile e dimesso.

Nel 1933 vennero chiusi i locali di ritrovo e sciolte le associazioni omosessuali. Grazie all’articolo 175 vennero puniti solo gli omosessuali maschi (questo articolo rimase in vigore nella Germania dell’Est fino al 1957 e nella Germania dell’Ovest fino al 1968). Per le donne, invece, non venne riconosciuta nessuna sessualità al di fuori della norma.

Le lesbiche vennero isolate dalla popolazione con accuse differenti: accuse che andavano dall’attività politica, alla corruzione alla criminalità. Molte lesbiche e omosessuali si salvarono grazie a matrimoni combinati e, paradossalmente, molte di queste ricordano positivamente il periodo nazista per la libertà e l’indipendenza che, altrimenti, non avrebbero mai avuto.

La guerra fu un deterrente di emancipazione per le donne che si ritrovarono ad essere impiegate nelle fabbriche per sostituire gli uomini. Molte di loro ebbero un reddito, frutto del loro sudore, e poterono indossare comodi pantaloni, vietati fuori dal lavoro.

In Europa l’unico stato a riconoscere e punire l’omosessualità femminile fu l’Austria. Il triangolo rosa cucito sulle casacche delle prigioniere ribadiva la posizione più infima nella scala dei reclusi nei campi di concentramento.

Per quanto riguarda la situazione italiana, e per quanto riguarda la condizione della donna dobbiamo partire da quello che legge imponeva alle cittadine. Il Codice Civile Pisanelli 1865 dettava preclusioni di natura giuridica e commerciale. I beni delle donne dovevano essere amministrati da un uomo: il padre prima e il marito dopo.

Il pericolo che le donne si potessero svincolare dal potere maschile doveva essere esorcizzato. La ginocrazia o governo delle donne minava il ruolo patriarcale vecchio di secoli e portava a galla il fantasma dell’omosessualità maschile. L’uomo non doveva essere governato da una donna, e se lo era, voleva dire che non era un vero uomo.

Nel periodo fascista molti furono gli slogan per ribadire i ruoli tra i sessi e uno tra i più famosi fu più proprio: “la maternità sta alla donna come la guerra ad un uomo”.

Chi non faceva figli incorreva al biasimo sociale, alla tassa sul nubilato ma anche a tutta una serie di malattie certificate come l’invecchiamento della pelle, peli sul viso, fibromi uterini e disturbi nervosi. Il condizionamento verso una razza nuova e pura fu soffocante, tanto che tra il 1924 e il 1929, in Italia, si ebbe il più alto tasso di suicidi femminili.

Ci fu una precisa connivenza tra Stato, Chiesa e scienza al fine di proteggere l’istituzione della famiglia e non permettere alle donne di emanciparsi. Su ogni casa vennero sguinzagliati assistenti sociali, spie, medici condotti, postini psichiatri e persino confessori. Le donne dovevano mantenere un ruolo subalterno ed essere prolifiche ed economiche: dovevano sfornare nuovi soldati allo Stato e saper amministrare i soldi portati dal marito.

Nel 1933 fu creata l’Opera Nazionale della Maternità ed Infanzia in vista della guerra d’Africa, al fine di combattere lo spettro di una razza meticcia. Nel 1936 Mussolini proclamò che la società italiana era “normalizzata” senza contraddizioni e disciplinata dal regime, ma diverso fu il comportamento del maschio italico in terra straniera.

In Africa Orientale molti soldati intrattennero relazioni con donne del posto. Mussolini cercò di stroncare ogni ambiguità punendo con cinque anni di reclusione chiunque avesse rapporti sessuali con le indigene. Non era ammesso congiungersi con una razza inferiore che avrebbe dato origine a figli non puri. Mussolini andò affermando che il vero uomo è colui che domina i suoi istinti, i suoi impulsi sessuali.Gli italiani gli diedero così tanto ascolto che, solo in Eritrea, furono dati alla luce più di 2700 bambini.

Alle donne italiane, invece, venne consigliata più remissività per evitare che il maschio italico si andasse a mischiare con altre etnie. L’ uomo era portatore del carattere morale italiano, ma alla donna spettava il ruolo più importante cioè quello di trasmettere il patrimonio biologico.

La rivista “Difesa della razza” fu l’organo italiano di razzismo per antonomasia ed uscì, quindicinale, dal 1938 al 1943. Queste riviste erano piene di immagini che raffiguravano esseri deformi nati proprio dall’unione di italiani con indigene. La donna italiana non poteva esimersi da accondiscendere al suo ruolo.

I maggiori nemici del fascismo, quindi, furono proprio l’emancipazione femminile, le prostitute, le levatrici e le lesbiche. Insomma, tutte quelle donne che, in qualche modo, non pensavano alla maternità come unico scopo della loro esistenza e, se per mestiere, facevano nascere bambini, non dovevano osare interrompere gravidanze indesiderate.

Ecco perché dico che le lesbiche in epoca fascista vissero in segreto silenzio e ogni esistenza fu una vera e propria vittoriosa resistenza. Il loro silenzio fu proprio una strategia di sopravvivenza che interessò tutti gli anni trenta e quaranta. Lesbiche ed omosessuali vissero in piccole comunità e usarono un proprio linguaggio fatto di allusioni e doppi sensi.

Il primo film lesbico che apparve in Italia fu “Ragazze in uniforme” (Mädchen in Uniform) di Leontine Sagan tratto da romanzo di Christa Winsloe “Ieri e oggi” (Gestern und Heute), pubblicato nel 1930. La trama, molto semplice e scontata, parla proprio di una giovane, Manuela, che si innamora di una insegnante nel collegio di Postman, Austria. Le due saranno scoperte e la giovane tenterà il suicidio. Questo film vinse il premio del pubblico alla Mostra del cinema di Venezia nel 1931, ma il fascismo non censurò la pellicola, anzi, prese ad esempio il comportamento della protagonista per ribadire il ruolo centrale della madre nell’educazione delle proprie figlie: la mancanza di affetto e di cura poteva portare le ragazze al suicidio. Il regime, ancora una volta, non nominò la parola lesbica ma disse soltanto che la mancanza d’affetto poteva essere causa di molte malattie mentali.

In Italia non ci fu mai una legge né contro l’omosessualità maschile né contro quella femminile. Anche se nel codice Rocco del 1925 era stato introdotto l’articolo 528, carcere da uno a tre anni per l’omosessualità maschile, Mussolini lo fece togliere spiegando che non ce n’era bisogno perché in Italia gli omosessuali non esistevano. Quelli che però furono colti sul fatto, vennero allontanati e confinati nelle miniere di Carbonia, in Sardegna, con lo stigma di asociali.

La prima volta che fu usata la parola lesbica in Italia fu nel “Manuale di semiotica della malattia mentale” di Enrico Morselli. In medicina ci fu anche un acceso dibattito tra lesbica e tribade. Quest’ultima indicava una perversione netta e incurabile e degli atteggiamenti tipicamente maschili da parte delle donne. Queste erano anche molto pericolose perché confondevano le donne eterosessuali e le portavano a una condotta ignominiosa.

Negli anni trenta appare anche il termine “invertita”, e con questa parola si intendeva l’inversione dell’istinto sessuale: quello naturale era solo quando una donna protendeva verso l’uomo. L’unica alternativa al rifiuto della femminilità per le lesbiche dell’epoca era proprio l’identificazione con la mascolinità, a quel tempo non si vedeva altra possibilità per esprimere la propria identità.

Il primo romanzo dove compare questa parola è “Il pozzo della solitudine” di Radclyffe Hall, 1928. Fu giudicato osceno nel Regno Unito, sequestrato e bruciato in tutta Europa. Ma come si sa, le cose proibite hanno un sapore più dolce, e così fu il romanzo più letto durante l’epoca fascista. Molte donne si identificarono in quella storia dolorosa che vedeva un amore consumato sotto la guerra.

In Italia il primo romanzo che descrisse apertamente una lesbica fu “Cronache di poveri amanti” di Pratolini 1947. Qui il personaggio viene descritto come una figura malvagia che detiene il potere. Chi detiene il potere è perverso e corrotto moralmente. La stessa associazione avviene nel primo film italiano dove si vede la presenza di una lesbica legata al potere nazista: “Roma città aperta” di Rossellini 1945.

Nelle carceri del fascismo vennero annotati due casi di omosessualità femminile, poi ritrattati. Violet B. perugina, di origine inglese venne denunciata dal marito per abbandono del tetto coniugale. La donna aveva una relazione, non nascosta, con Fernanda B., donna della media borghesia, a cui dava lezioni di inglese. Le due vennero scoperte a dormire nello stesso letto nella casa al mare. Su questo caso intervenne personalmente Benito Mussolini per togliere la condanna e archiviare il tutto come un caso di isteria femminile.

Un altro caso, ben più complicato, fu quello di Agata F., prostituta, che venne accusata dalla ex compagna di maltrattamenti e induzione a pratiche sessuali perverse. Le due si accusarono a vicenda rivelando una complessa rete di donne che amavano altre donne. In più confessarono connivenze tra polizia, prostitute, osti e affittacamere. A quei tempi la prostituzione non era illegale se regolata nelle case amministrate dallo Stato. Lo Stato permetteva il mercimonio alle donne che non avevano altro per sostentarsi. Giuseppina S. e Agata F. furono condannate a tre anni di confino: “nell’interesse della pubblica moralità” ma anche “della sanità della razza”.

 

 

Emanuela Dei


Bibliografia:
“Fuori dalla Norma” Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del novecento, a cura di Nerina Miletti e Luisa Passerini, Rosenberg&Sellier, 2007

R/esistenze lesbiche nell’Europa nazifascista, a cura di Paola Guazzo, Ines Rieder, Vincenza Scuderi, Ombre corte, 2010.

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