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I wanna be the minority, cantava Billie Joe. A quattordici anni io ascoltavo, urlavo, ballavo e mi commuovevo. Cantavo di voler essere la minoranza, cantavo del “silenzio di un migliaio di cuori infranti” senza sapere quanto a queste parole mi sarei trovata ad essere fedele, in futuro.

Minoranza mi sono sentita quando in classe, durante un dibattito, alla domanda: “Chi di voi non crede in Dio?” sono stata l’unica ad alzare la mano.
Minoranza mi sono sentita quando ho parlato mentre tutti intorno restavano in silenzio ma, molto più spesso, quando ho taciuto mentre tutti intorno a me avevano qualcosa da dire.
Mi sono sentita minoranza tutte le volte che ho detto “No”, tutte le volte che ho chiuso la porta e allontanato le altre persone, e non di rado la mia solitudine mi ha schiacciato il petto, mi ha fatto sentire in torto, anche a me che non credo in parole come “ragione” e “torto”.
Mi sono sentita minoranza quando ho capito che per l’amore che provo avrei dovuto lottare, che se per me è naturale perdermi negli occhi di un’altra persona senza badare che sia uomo o donna, per tanti non lo è.

Dovrei odiarla, questa parola che mi ha sempre infilata nella categoria variegata dei “diversi”, come un pacco che non si sa sotto quale voce catalogare e alla fine viene soltanto schedato come “altro”. Dovrei odiarla e invece la amo. Forse perché essere anticonformista è figo, sì, ed io sono soltanto vanitosa. Forse perché, come di sicuro qualcuno crede, mi piace fare la vittima.
O forse perché questo è l’unico modo che ho per amarmi. Perché quando sento che parole, pensieri, emozioni nascono soltanto da dentro di me, so di potermi fidare e allora sono orgogliosa, sono convinta, sono completa. Quando invece mi rendo conto di riferire parole di altri, di scimmiottare sentimenti di altri, mi sento come un fiore lasciato a marcire in un vaso senza l’acqua, senza radici, senza luce.

Io voglio ancora essere la minoranza, come lo volevo a quattordici anni. Voglio essere quella minoranza che spinge, che pungola, che disturba, che ti sussurra all’orecchio: “Perché?” o “Perché no?”, che ti strizza l’occhio quando trovi il coraggio di sfidare te stesso, fosse anche solo per un giorno, di spalancare tutte le porte dentro la tua mente per far cambiare aria.

Io non sono migliore di te e non mi interessa esserlo, perché non giudico le persone come fossero alberghi da premiare con le stelline. Io sono solo diversa da te e questo dovrebbe incoraggiarti, metterti in discussione, farti essere più fiero di te come io lo sono di me stessa, questo dovrebbe farci incontrare perché tra uguali non c’è incontro, non c’è scambio, non c’è nulla.
Se tutto fosse in equilibrio perfetto, non ci sarebbe alcuna forza a scorrere da una parte all’altra, alcun disordine a spezzare le simmetrie, alcun movimento, alcuna possibile evoluzione. Senza sette note diverse non esisterebbe musica e senza quelle alterate, i diesis e i bemolle che si nascondono nei tasti neri del pianoforte, quanta ricchezza perderemmo.

Io sono minoranza e spero di esserlo sempre. E tu?

Vulcanica

One Comment

  • alice ha detto:

    Bellissimo tutto quello che hai scritto Vulcanica!.. e in particolar modo mi ha colpito questa frase :”Perché quando sento che parole, pensieri, emozioni nascono soltanto da dentro di me, so di potermi fidare e allora sono orgogliosa, sono convinta, sono completa. Quando invece mi rendo conto di riferire parole di altri, di scimmiottare sentimenti di altri, mi sento come un fiore lasciato a marcire in un vaso senza l’acqua, senza radici, senza luce.” Quesllo che hai scritto quì rende perfettamente l’immagine di quando si perde il senso di sè pensado di fare bene, almeno agli altri, e si finisce per morire dentro..mentre poi l’unica cosa sensata è accettarsi e amarsi per come si è, il più onostamente possibile. E’ così che possiamo diventare la versione migliore di noi stessi.
    A.

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