Skip to main content

«Abbiamo bisogno di buone madri non di calciatrici» 

 

Sognavo, quand’ero piccola, di correre su un campo verde, il cielo di un profondo celeste, una spruzzata di nuvole bianchissime ed il sole che accende i colori intorno. Io con una bella divisa da calcio rincorrendo il pallone che sfreccia sull’erba. Per farlo mio.

La maggior parte delle volte però, immaginavo e immagino tutt’ora di essere su un prato zuppo d’acqua, la pioggia battente che mi rimbalza sulla schiena come a rassicurarmi che no, non è un sogno, mentre io, china ad allacciarmi le scarpette da calcio, mi preparo per un’emozionante partita di pallone.

Quando ho saputo dell’uscita del libro Giovinette, mi sono tornate in mente queste immagini, pensieri di un sogno di cui sono stata privata da bambina perché il calcio è da maschi. Quando ho letto il titolo non ci volevo credere, come era possibile che ci fossero state delle ragazze negli anni del fascismo a sfidare il duce, il maschilismo, gli stereotipi e la società patriarcale di quel regime?

Come potevo non fare una chiacchierata con chi ha letteralmente riesumato la storia di questa lotta?

Federica Seneghini, giornalista del Corriere della Sera e Marco Giani, storico ed insegnante, sono gli autori di questo romanzo e del saggio finale.

Senza (spero) rivelare troppo, il romanzo, attraverso una straordinaria ricerca storica, racconta l’impresa sportiva e direi anche sociale di un gruppo di ragazze di Milano, che fondarono nei primi anni 30 il GFC (Gruppo Femminile di Calcio). In un primo momento il regime fascista rimase spiazzato dalle lettere in cui Rosanna Strigaro (una delle calciatrici) presentava la squadra e chiedeva autorizzazione a giocare. Le autorità non sapevano come rispondere, era una cosa nuova mai successa prima. Inizialmente diedero il via libera (con le dovute restrizioni), in seguito furono più che altro i giornalisti a dare voce ai pregiudizi più comuni.

 

Da dove è nata l’idea di scrivere questo libro e soprattutto come siete venuti a conoscenza di questa incredibile storia?

Federica: Sapevo che c’era stata una squadra femminile nel 33 e che era stata fermata dal CONI e dal regime fascista ma la storia della squadra l’ho scoperta imbattendomi in alcuni saggi di Marco Giani grazie ad un articolo che dovevo scrivere per il Corriere prima dei Mondiali femminili di calcio del 2019. Siamo poi andati a casa di Grazia Barcellona, la bambina del romanzo chiamata Graziellina, ultima testimone oculare dell’impresa di queste ragazze. Purtroppo è morta pochi mesi dopo il nostro incontro, sarebbe stato bello darle una copia del libro. Nonostante fosse piccola quando le ragazze giocavano, ricordava molto bene la storia, che è diventata un racconto di famiglia da tramandare, è un po’ la storia della loro famiglia che anche i figli ed i nipoti ormai conoscono.

Quindi per prima cosa, è nato un articolo che abbiamo pubblicato sul Corriere e da lì poi, abbiamo deciso di scrivere un libro. Abbiamo cercato i familiari di alcuni personaggi della storia, c’era tanto materiale tra documenti e articoli dei giornali di allora. Abbiamo anche un diario di una delle giocatrici, in cui in poche pagine racconta di quando i giocatori dell’Ambrosiana Inter andarono a vederle giocare. Una risorsa molto utile, ed è per questo che ho deciso di raccontare il libro in prima persona, dal punto di vista di Marta.

Marco: Come storico, dal 2014 avevo cominciato a fare ricerca su questa storia e nel 2017 scrissi due articoli “Amo moltissimo il giuoco del calcio” e “Nere sottanine” pian piano approfondendo sempre di più.

La svolta è avvenuta quando mi sono accorto che la Commissaria (accompagnatrice) Barcellona, citata in un reportage del Calcio Illustrato (giornale dell’epoca) era Giovanna Boccalini Barcellona, la sorella maggiore delle sorelle Boccalini protagoniste del romanzo, che è stata una partigiana importante, fondatrice dei gruppi di difesa della donna, consigliera e poi assessora a Milano nel dopoguerra, e da lì pian piano ho fatto tutte le connessioni che ci hanno portato a ricostruire le vicende.

 

Cosa vuol dire aver sfidato il duce?

Federica: La sfida in realtà è per voler essere libere, più che una sfida al regime. Tentarono in tutti i modi di proseguire scendendo anche a compromessi; per citarne alcuni la questione delle dimensioni del campo da gioco, la decisione di mettere in porta dei ragazzini delle squadre maschili, l’imprescindibilità della gonna in campo, i tempi regolamentari più brevi.

Le ragazze sapevano molto bene come rapportarsi al regime, si vede benissimo dalle lettere che scrivevano ai giornali e agli uomini del potere, non alzarono mai i toni. Non volevano far scandalo, solo giocare ed essere libere!

Dobbiamo pensare che erano ragazzine nate durante il fascismo e che avevano vissuto solo quel regime, alcune non saranno nemmeno state contro il fascismo. Delle sorelle Boccalini (la famiglia protagonista del romanzo ndr) conosciamo bene la storia antifascista, gli arresti avvenuti in famiglia. Erano contatti che Marco aveva da tempo. Inoltre hanno avuto dei ruoli significativi a Milano, Giovanna in primis, ma anche Grazia Barcellona che divenne campionessa di pattinaggio..

Delle altre non sappiamo nulla e possiamo presumere che alcune fossero fasciste o semplicemente indifferenti alla politica. Ed è stato difficile trovare i discendenti delle altre ragazze, che probabilmente si saranno sposate acquisendo i cognomi dei mariti che poi sono andati ai figli e alle figlie.

Marco: Il nemico non è tanto il fascismo e si capisce da dopo il ’45. Perché se lo fosse stato, dopo il Regime in un’Italia libera ci avrebbero detto “adesso giocate tutte a calcio se volete!”. Invece non accadrà. Il nemico è il maschilismo, che certamente era più esplicito e dottrinale sotto il fascismo, ma non è finito lì. Di fatto loro combattevano contro i pregiudizi maschilisti, ma paradossalmente si appoggiavano a certi aspetti del fascismo per poter continuare. Anche nel ’68 la Sinistra italiana non aiuta il calcio femminile non capendo le potenzialità anche emancipatorie che ne potevano derivare.

A tal proposito, non dimentichiamoci il titolone della Gazzetta il 24 settembre 1974, in occasione della prima partita femminile della storia al Meazza di San Siro. Era un’amichevole Italia-Scozia, vinta dalle italiane per 3 a 0. Il titolo diceva: L’Italia sembra l’Olanda, purtroppo sono donne…

 

Certo, il contesto storico era molto diverso da oggi, ho letto per esempio che accettavano di essere chiamate “tifosine”, e non avevano nessun problema a scrivere in una lettera “perdonerete, ci siamo dilungate, ma siamo donne”.

Federica: Sì dobbiamo riflettere sul fatto che son cose successe 90 anni fa, si facevano chiamare tifosine, ma probabilmente a nessuna di loro dava fastidio. C’era per forza di cose una morale diversa. Anche Giovanna , che all’epoca della squadra aveva 30 anni e già due figli, fu lei stessa da anziana a spiegare che per lei sarebbe stato impossibile giocare a calcio perché aveva dei figli.

Marco: Esattamente, a Giovanna, nonostante dopo il fascismo si fosse battuta per i diritti delle donne, non passava nemmeno dall’anticamera del cervello di giocare avendo già dei figli.

Secondo me, una frase del genere alla fine di una lettera, viene anche detta con orgoglio, di chi riesce a farsi accettare nonostante gli ostacoli, ovvero: mi auto-prendo in giro tanto mi state permettendo di entrare nella vostra fortezza. Sicuramente era battuta sincera eh! E sicuramente con lo sguardo di oggi, noi facciamo molta fatica a capirlo. Un’altra cosa interessante da dire è che loro non chiedono il parere alle donne sportive permesse dal regime, ad esempio le cestiste, ma lo chiedono ai maschi e riescono ad avere l’approvazione dei capitani del calcio maschile italiano, addirittura l’Inter e lo Sparta Praha vanno a vederle giocare! E’ qualcosa di incredibile!

 

Via via che leggevo, ho provato un senso di colpa e fallimento. La storia parla di tenacia, forza, coraggio, tanto coraggio. Amore, voglia di divertirsi attraverso il sogno di giocare a pallone. E penso perché io non ho insistito? Non lo so, ero solo una bambina quando mi ripetevano che non potevo giocare a calcio perché è da maschi, quando dicevano che sarei tornata zozza di fango. Ma cosa sono dei vestiti sporchi in confronto alla felicità? Sarei andata a giocare anche con gli stessi vestiti per anni pur di tirare un calcio ad un pallone.

Anche io come Rosetta e le compagne mi allenavo senza sosta quando ero una bambina. Sì, ma da sola.

Quando finalmente a 20 anni, senza aver fatto mai un allenamento vero, ho deciso di andare a giocare in una squadra, non ho mai mancato un allenamento. Persino dopo un ricovero in ospedale, nonostante la raccomandazione della dottoressa di non giocare, sono tornata su quel campo.

 

Come mai il fascismo non voleva che le donne giocassero a calcio?

Federica: La motivazione che mi son data io è che il calcio è uno sport di contatto. Per esempio il basket all’epoca non lo era. Appena due giocatori si scontravano l’arbitro fischiava e l’azione si interrompeva. A calcio è impossibile non toccarsi. Era uno sport privo di grazia e la grazia era una qualità indispensabile affinché le donne trovassero marito, quindi rischiavano di non sposarsi e non avere figli cioè venir meno alla funzione per cui erano state messa al mondo. E’ proprio per la paura di compromettere la loro fertilità che il ruolo da portiere potevano farlo solo i maschi.

La questione della grazia è cruciale, ancora adesso se ne parla. Se ci pensi, gli sport in cui oggi vantiamo campionesse, penso alla Cagnotto, Pellegrini, le ragazze del volley, sono tutti sport in cui le donne non si toccano oppure giocano da sole.

Col linguaggio degli anni ’30 loro lo spiegavano bene: nel calcio le donne facevano sforzi eccessivi, sudavano, facevano smorfie, cadevano, si ferivano e correndo, il seno, le gambe e tutte le loro forme si sarebbero mosse troppo.

Marco: Le calciatrici del ’33 sono un po’ la nemesi, la vendetta della politica sportiva fascista. Per dare una cornice storica, prima del fascismo le donne non facevano sport, a meno che non fossero di famiglia nobile/borghese, e allora praticavano equitazione o tennis al massimo. Le bambine iniziano con il fascismo a praticare sport, non certo per una questione di emancipazione bensì per un motivo molto preciso e strumentale, ovvero migliorare i loro corpi per il miglioramento della razza. Paradossalmente il fascismo doveva lottare con le  famiglie troppo conservatrici che non permettevano alle figlie di fare sport. Quindi sport sì, ma non snaturare i corpi: la grazia alle donne e la forza agli uomini per non modificare una certa visione di genere.

Il grande paradosso in questa storia sta proprio nell’aver prima permesso alle donne di fare sport e poi avergli impedito di giocare a calcio. La logica delle ragazze del GFC era sostanzialmente questa: ci avete fatto provare tutti gli sport, siamo tifose di calcio, perché non possiamo giocarci? E all’inizio il Regime ha acconsentito perché per forza di cose non poteva tirarsi indietro! In qualche modo fanno saltare in aria questo paradosso, e lo vedremo nei momenti iniziali proprio con Arpinati (Presidente della FIGC e del CONI nel 33, ndr). Ed è interessante vedere come un’ideologia tenta di forzare la realtà e poi ne paga le conseguenze.

Per quanto riguarda invece l’essere tifose, nessuno aveva da dir nulla!

 

Eh già, le famose tifosine, che abbiamo citato prima…

Federica: Sì, ad esempio le sorelle Boccalini sono state delle tifose sfegatate per tutta la vita dell’Ambrosiana Inter, andarono allo stadio anche da anziane. Uno dei loro nipoti ci ha raccontato che quando andavano la domenica a cena dalla nonna si mangiavano i panini perché lei doveva vedere 90° minuto!

Marco: Sì. A quel tempo le donne non andavano nelle Tribune, ma nelle Curve che all’epoca si chiamavano Settori Popolari, spesso in gruppo di amiche, non per forza con fidanzati o mariti e sicuramente, immaginandosi cosa si sentivano dire dai maschi, avevano imparato come tifose del calcio maschile a stare in un contesto simile, a rispondere a tono, a non essere passive. E’ anche per questo che riescono a tenere testa ai direttori dei giornali sportivi e agli uomini del Regime.

 

Quindi il fascismo permetteva alle donne di fare sport, ma non il calcio. Non a caso le più forti della squadra furono chiamate dal regime a fare altro, giusto?

Federica: Sì, vennero proprio reindirizzate in altri sport. Il fascismo in realtà puntò molto sullo sport e sull’attività sportiva degli italiani ma anche delle italiane. Lo sport per le donne serviva sicuramente ad irrobustire il fisico, quindi a migliorare la razza italiana come dicevano le teorie scientifiche dell’epoca, ma soprattutto serviva alle olimpiadi per permettere all’Italia di conquistarsi un posto nei medaglieri olimpici o nelle competizioni internazionali. La donna però, ad un certo punto avrebbe comunque dovuto terminare questa attività perché doveva far figli. Da lì non si scappava!

Il calcio invece non aiutava a migliorare il fisico, anzi avrebbe potuto mettere a rischio la fertilità delle donne e non era uno sport olimpico, in pratica non serviva a niente.

Quindi queste ragazze furono nel vero senso della parola prese e riutilizzate per altri sport, come basket, corsa e altri sport più canonici.

 

Dal libro non traspare alcuna critica riguardante l’orientamento sessuale o l’identità di genere delle ragazze. Oggi invece siamo molto legati a questi stereotipi, chi non si ricorda la frase di Belloli, Presidente della Lega nazionale dilettanti?

Federica: A livello storico non c’è niente ma probabilmente è una cosa che sarebbe successa se fossero andate avanti. Anzi, le critiche del tempo erano proprio l’opposto. Si diceva che queste ragazze giocavano per mettersi in mostra, far vedere le gambe e trovare marito.

Marco: Sì, si deve capire che all’epoca c’erano pregiudizi di altro genere. C’era uno strano fenomeno, quello delle ballerine, chiamate all’epoca “girls”, ragazze di spettacolo sempre in gonna che una volta organizzarono una partita in pantaloncini. Questo fenomeno era così radicato nelle menti dell’epoca che alle ragazze del GFC veniva detto: siete come le Girls volete farvi vedere per accalappiare un marito! Donne sin troppo procaci a caccia di uomini. È per questo che le Giovinette, rispondendo ai critici sottolineano di essere brave ragazze, di allenarsi, mangiare tanto ed andare a dormire presto. Giocare a calcio gli permetteva di fare una vita moralmente giusta, non di andare nelle balere la sera! Immaginati la Giacinti oggi dire una roba del genere ad un giornalista! Impensabile! Oggi ci si chiede quante lesbiche ci sono in una squadra, prima gli si diceva che volevano cercare uomini. Dobbiamo indossare la lente della storia per dare un senso e capire come ragionavano prima e non schiacciare troppo sul nostro presente.

 

In più passaggi del libro Rosetta, la più forte della squadra, viene chiamata Rosetto da un amico. L’autrice precisa di averlo inserito in riferimento ad una dichiarazione di Barbara Bonansea. Quando era piccola i suoi amici la chiamavano Barbaro.

Mi ha fatto ricordare una mia partita, giocata vicino a Firenze credo, su un terreno che era praticamente un campo di patate. Tutto terra e buche. Era il secondo tempo forse, giocavo sulla fascia dalla parte degli spalti. A quel tempo avevo i capelli corti, una sorta di cresta. Mi sento chiamare da due ragazzi, mi sento dire che sono un maschio e una lesbica di merda. Li guardai e loro seguitarono a sfottermi. In quel momento mi chiesi perché nessuno li ammonisse. Eppure tra gli spettatori ci saranno stati genitori e amici delle giocatrici di casa!

Finita la partita non raggiunsi le mie compagne negli spogliatoi ma uscii dal cancello, piena di rabbia con le lacrime agli occhi e andai a cercarli ancora con gli scarpini da gioco. Non li trovai.

Mi sono anche ricordata di una persona che mi disse “tanto non sarete mai uomini”.

Quando ho letto che Rosetta veniva chiamata Meazza in gonnella mi sono ricordata di quando mia madre mi chiamava col nome di mio fratello e poi ci aggiungeva “in gonnella”. Non l’ho mai sopportato. A dire la verità all’inizio mi piaceva, mi faceva sentire forte, più importante delle bambine che erano “solo” bambine, che non avevano un alter ego maschile. Che assurdità.

Troppo spesso veniamo paragonate agli uomini quando ci devono essere riconosciuti dei meriti, troppo spesso se andiamo fuori dai canoni stereotipati del femminile, dobbiamo automaticamente assomigliare a qualche uomo.

Nel calcio, si prendono come paragone solo i calciatori, non ho mai sentito, quando giocavo, fare paragoni con le calciatrici che militano nelle massime competizioni in Italia e all’estero. Eppure le giovani hanno bisogno di riferimenti femminili, tutt* ne abbiamo bisogno per andare avanti.

 

Giovinette calciatrici

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cosa pensate possa lasciare e vorreste lasciasse a* lettor* questa storia, questo pezzo di storia italiana?

Federica: Una delle cose più difficili è stata dare un senso ai documenti che avevamo a disposizione e riuscire a creare un romanzo, altrimenti sarebbe rimasto un saggio storico e quello che noi volevamo era raggiungere anche i più giovani. E’ un pezzo di storia, della storia dell’Italia, è un peccato che rimanga solo appannaggio di pochi. Mi hanno già contatta due scuole per leggerlo nelle classi.

Inoltre penso che serva a far capire da dove vengono certi pregiudizi, certe critiche che esistono ancora oggi come esistevano 90 anni fa, capire che è il caso di andare avanti e per farlo, dobbiamo naturalmente conoscere la nostra storia. A proposito, lo sforzo per ricostruire i dialoghi è stato proprio minimo perché molti pensieri di oggi esistevano anche allora, quindi a volte ho riportato giudizi stereotipati che ho sentito da amici e conoscenti inserendoli in quel contesto storico senza alcun problema.

Vorrei che i ragazzini capissero cosa è stato il fascismo, che vuol dire anche perdita di libertà tra cui quella di giocare, qualcuno che ti diceva cosa potevi o non potevi fare nel tempo libero.

 

Sarebbe stato illuminante se me lo avessero raccontato alle scuole elementari e alle scuole medie. Io che non sapevo nemmeno che esistesse il calcio femminile all’epoca. Forse sarei stata più combattiva con i miei genitori, forse avrei scoperto che esistevano squadre femminili di calcio, forse avrei capito che le femmine possono giocare a pallone.

Tantissime sensazioni leggendo questo pezzo di storia, è stato forte, coraggioso, emozionante. Mi ha fatto piangere e mi ha fatto credere nella forza delle donne e degli uomini che combattono al loro fianco.

Spero davvero che il sindaco Beppe Sala intitoli una via, una piazza, un monumento, un edifico o non so cos’altro con il nome di queste ragazze, come ha promesso. E che via via lo facciano altrove, non solo a Milano.

Un altro desiderio è che il calcio femminile si avvii presto verso il professionismo. Basta chiacchiere inutili.

 

 

Ginevra Campaini

[Federica Seneghini, Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il duce, con un saggio di Marco Giani, Solferino 2020, pp. 256, € 16,50]

Leave a Reply