Skip to main content

Questa storia comincia con un ragazzo che voleva iscriversi all’università, trasferendosi nel college come i suoi coetanei di Berkeley. Tutto normale, tranne un particolare: muoveva solo gli occhi e un dito. Trascorreva gran parte della giornata dentro un pesante polmone d’acciaio – siamo alla fine degli anni ’50 – e le ore restanti seduto su una carrozzina.
“Tu non potrai né studiare né lavorare” gli dissero dal Dipartimento per la Riabilitazione, che doveva concedergli un nulla osta per l’iscrizione. “La tua disabilità è troppo grave, l’università non può accoglierti” fu il decreto dell’operatore sociale – il quale, ironia della sorte, aveva a sua volta una lieve disabilità per via di un problema a una gamba.
Edward Roberts – questo il nome del ragazzo – poteva scegliere: accettare in buon ordine la sentenza o ribellarsi. Scelse la seconda strada e nel giro di pochi anni non solo era iscritto all’università, ma diventò il direttore di quello stesso ente che lo aveva definito “troppo disabile” per lavorare. E fu solo l’inizio: divenne uno dei fondatori del Movimento per la Vita Indipendente, che negli anni ’60, complice il clima di contestazioni, avviò un ribaltamento della percezione sociale delle persone con disabilità: da oggetti di cure a soggetti attivi, in grado di autodeterminarsi e lottare per se stessi e per gli altri.

Perché raccontare questa storia proprio adesso? Intanto perché 2 mesi fa è successo qualcosa di importante. Tramite un sotterraneo passaparola sui social, persone con disabilità di tutta Italia – semplici cittadini, che magari non si erano mai considerati “attivisti” – hanno deciso che era ora di lottare, proprio come Edward. Nel giro di neanche un mese hanno organizzato manifestazioni in più di venti città italiane, sotto il nome di “Liberi di fare”. Sono scese in piazza per il diritto a uscire di casa, a non essere segregati in strutture residenziali, ad avere fondi per assumere “assistenti personali”, ovvero quelle persone che le aiutano a compiere i gesti della quotidianità: alzarsi dal letto, mangiare, aprire la porta di casa. Un’assistenza che può costare anche due, tre, quattromila euro al mese, a seconda dei bisogni, e che quindi nessuno potrebbe permettersi senza un aiuto da parte del welfare.
È una richiesta forse “esagerata”, in tempi di crisi? Quale sistema di welfare può pagare tremila euro al mese, per anni e anni, a una singola persona? La domanda è legittima, e per provare a rispondere dobbiamo tornare un attimo alla storia di Edward Roberts.
Quell’operatore sociale del Dipartimento per la Riabilitazione probabilmente pensò qualcosa di simile. “Al college, uno completamente paralizzato? E dove lo mettiamo un polmone d’acciaio da diverse tonnellate? E chi dovremmo pagare per assistere Edward 24 ore al giorno?”. Col suo diniego si limitò a seguire una prassi, un’abitudine, anche il buon senso: io, francamente, non lo biasimo. Il sistema di welfare e la cultura dell’epoca non erano attrezzati per rispondere a una richiesta simile, che sembrava semplicemente assurda. Porrebbe qualche difficoltà anche oggi, oggi che si può usare un computer muovendo solo gli occhi… figuriamoci nell’immediato dopoguerra.

Eppure, qualcosa è cambiato: quella che era una richiesta “esagerata” ad un certo punto è diventata un “diritto”. E questo è successo grazie a chi ha lottato.
Non è accaduto solo alle persone con disabilità: cent’anni fa, chi avrebbe parlato di relazioni e matrimoni gay? Nel tempo, un movimento ha lavorato affinché ciò che sembrava stranissimo, innaturale, impensabile, venisse normalizzato e diventasse un diritto.
Raccontare la vicenda di Edward, allora, serviva a ricordarci questo: la differenza tra ciò che è esagerato e ciò che è considerato diritto discende anche da una costruzione sociale. Edward è riuscito a cambiare le cose perché si è rifiutato di accettare tale costruzione per com’era, ha guardato oltre lo status quo, ha immaginato che le persone con disabilità potevano cucirsi addosso un ruolo diverso e dei nuovi diritti.

 

Cosa sappiamo della disabilità?

Sono passati sessant’anni, ma questo esercizio di immaginazione è ancora difficile da fare. Tutti noi – disabili compresi, perché siamo tutti socializzati allo stesso modo – abbiamo appreso una serie di nozioni sulla disabilità. Abbiamo imparato ad aspettarci determinate cose, ad accettare certe situazioni come “normali”, attese.
Per esempio, tendenzialmente siamo tutti convinti che:

  1. avere limitazioni sia una normale conseguenza della menomazione.
  2. se ti serve aiuto per via della disabilità, in primis deve aiutarti la tua famiglia.
  3. il sistema di welfare ti aiuta solo se non c’è nessun altro che può farlo al posto suo.

Proviamo a distanziarci un momento da questa rappresentazione, a prenderne consapevolezza, a guardarla da fuori, perché ci sembri meno ovvia. Facciamolo con un esperimento mentale: che succede se la applichiamo ad una persona qualsiasi, normodotata?

  • Bene, tu da oggi non esci più di casa. Se proprio vuoi, ti fai accompagnare dalla mamma.
  • Ma come? Sono un adulto… devo andare a lavorare, a trovare il/la mio/a partner…
  • Va bene, ma puoi uscire solo accompagnato dalla mamma.
  • Ma mia madre ha 85 anni, non ce la fa ad accompagnarmi!
  • D’accordo, allora se proprio non ce la fa, ti concediamo di uscire per due giorni alla settimana, accompagnato da appositi operatori. E ringrazia perché c’è chi non ha nemmeno quelli!

Surreale, vero? Eppure è quel che accade normalmente alle persone con disabilità, se hanno bisogno di aiuto per scendere dal letto, o muoversi fuori di casa. Ci sembra ovvio, però, che in questo caso si perdano alcune libertà, perché diamo per scontato che la causa di tale perdita sia la “menomazione”, cioè il problema fisico.
Eppure non è così. Ormai da tempo l’Organizzazione Mondiale della Sanità utilizza il cosiddetto “modello biopsicosociale”, secondo il quale la disabilità è frutto di un’interazione tra un problema di salute, fattori personali e ambientali. In parole povere: a parità di menomazione, si possono avere disabilità diverse. Se non cammino e uso una carrozzina in un ambiente pieno di barriere architettoniche, ad esempio, sono “più disabile” (quindi posso fare meno cose, ho meno libertà) di una persona che ha il mio stesso problema, ma vive in una città moderna e accessibile, può prendere i mezzi pubblici, entrare in tutti i negozi eccetera.
Allora non è solo la malattia, o l’incidente, ma anche la mancanza di servizi e di fondi a renderci disabili. Ed ecco che abbiamo smontato il primo preconcetto, quello della limitazione inevitabile e normale: se ho l’assistenza che mi serve, sono “meno limitato”. Se invece non ce l’ho – e quindi, per fare un esempio, non posso uscire di casa quando voglio – qual è la causa di questa limitazione? La malattia o la mancanza di servizi adeguati? È davvero così scontato e “normale” dover perdere la propria libertà, o possiamo rivendicare il diritto ad avere un’aspettativa diversa?

Veniamo al secondo preconcetto: il “ti aiuta la famiglia”. Abbiamo imparato a darlo per scontato, ma in fondo dove sta scritto che un parente è tenuto a devolvere la propria vita all’assistenza del congiunto, spesso senza nessun sostegno? E a maggior ragione, chi ha deciso che una persona con disabilità deve per forza accettare di essere dipendente dai genitori o dai parenti? Nelle famiglie “normali” talvolta si litiga, si tengono le distanze, o semplicemente si prendono strade diverse, com’è anche naturale quando i figli crescono: perché invece, se c’è di mezzo una disabilità, i familiari devono essere reciprocamente costretti a un vitalizio legame obbligatorio?
Attenzione: qui non si criticano certo quei genitori, fratelli o figli che si assumono pesantissimi compiti di cura. Si può fare questa scelta, e nel caso il caregiver familiare ha diritto ai sostegni necessari. Ma una scelta è tale solo se c’è anche un’alternativa, e sappiamo che troppo spesso non c’è, soprattutto per chi non ha risorse economiche proprie con cui pagare un assistente. E allora i rapporti familiari si confondono con il rapporto di cura, in un “invischiamento” che non fa bene a nessuna delle due parti e deteriora la relazione.
Anche il nostro sistema di welfare condivide questo preconcetto, caratterizzandosi come welfare residuale, ovvero che interviene (…quando lo fa) solo laddove tutte le altre risorse – non solo economiche, ma anche umane, di tempo, eccetera – sono assenti. Siamo così abituati a questo principio che discuterlo ci sembra assurdo: perché mai la collettività dovrebbe farsi carico di chi può cavarsela da solo? In un contesto di risorse scarse, con quale faccia chiediamo soldi per assumere un assistente personale, quando abbiamo ancora un genitore o un figlio che ci possono aiutare?
Saremo “esagerati”, ma a noi piace pensare che poter scendere dal letto la mattina, poter andare in bagno, mangiare, mettere il naso fuori di casa (e fare tutte queste cose con la stessa libertà di scelta che hanno tutti) siano diritti fondamentalissimi, che un sistema di welfare deve garantire a tutti, come fa con la sanità pubblica, come fa con l’istruzione. Infatti, pur con tutte le limitazioni e le magagne che conosciamo, possiamo ancora dire che il nostro Paese riconosce un livello minimo di diritti sociali in maniera universalistica: le biblioteche ti prestano libri indipendentemente dal tuo reddito, in ospedale ti operano senza chiederti se hai un’assicurazione sanitaria, i lampioni in strada si accendono senza chiedere l’ISEE a chi ci passa sotto. Ovviamente non è tutto gratis: semplicemente, il costo di questi servizi è condiviso tra tutti i cittadini.

Il movimento Liberi di fare lotta affinché anche l’assistenza personale alle persone con disabilità entri nel novero dei diritti di base di ogni persona, come la sanità, come l’istruzione. Diritti il cui costo, in termini sia economici che di tempo e sforzi, non deve ricadere soltanto sui pochi che ne sono direttamente coinvolti: l’intera società vi può contribuire. Anche perché – pur se non piace sentirlo dire – la disabilità può riguardare tutti, in qualsiasi momento.
Farsene carico collettivamente, allora, significa avere la garanzia che, comunque vada la nostra vita e quella dei nostri cari, avremo sempre garantita l’assistenza necessaria a proteggere la nostra indipendenza, dignità e libertà di fare.

Liberi di fare, Bologna

Leave a Reply