Skip to main content

Come ho già spiegato nella mia biografia pubblicata su “Io sono minoranza”, ho una diagnosi di autismo ad alto funzionamento, o disturbo dello spettro autistico, senza compromissione linguistica od intellettiva, detto anche un tempo Sindrome di Asperger.
Una cosa che capita a molte persone come me è il sentirsi dire:

Ma non è possibile che tu sia autistico! Ti comporti in maniera eccellente!

Ma se tre cliniche indipendenti me l’hanno ufficialmente diagnosticato, devo dar loro ragione.

Alcune persone preferiscono dire persona con autismo anziché persona autistica, allo stesso modo in cui in molte altre situazioni si preferisce dire persona con disabilità anziché persona disabile.
Rispetto chi dissente da me, ma ritengo necessario spiegare perché preferisco definirmi “autistico” anziché “persona con autismo”. Dire “persona con …” significa voler separare la persona dalla sua condizione, per poterla eventualmente mettere tra parentesi e proteggerla così dallo stigma. Questo è concettualmente possibile quando la menomazione (riduzione delle capacità rispetto alla media) che causa disabilità (peggioramento della qualità della vita) e attira sul soggetto degli handicap (divieti imposti dalla legge o dal costume a chi ha una menomazione od una disabilità – come ad esempio le limitazioni alla vita sessuale) risale a molto tempo dopo la nascita, per cui il soggetto può dire: “Ero così, ma poi mi è accaduto questo. Spero che la medicina mi ripristini”.
A loro faccio i migliori auguri; ma chi invece si trova ad essere nato con una “diversa abilità” non può concepire una vita diversa da quella che essa gli ha consentito.

L’autismo è un disturbo del neurosviluppo, che nasce dall’intreccio tra predisposizione genetica (si ritiene che almeno 80 geni siano coinvolti nelle sindromi autistiche – questo polimorfismo spiega anche perché ogni autistico è diverso dall’altro, anche se hanno un’“aria di famiglia” che consente di dare a tutti la medesima diagnosi) e fattori ambientali.
Un recente studio afferma che l’ereditabilità per il “disturbo dello spettro autistico” è nientepopodimeno che dell’83%; si è anche calcolato in altri studi (rei di omo- e bi- cancellazione, visto che alle coppie dello stesso genere non hanno proprio pensato!) che un uomo autistico ha 11 volte più probabilità di sposare una donna autistica, che se la scelta fosse dovuta al caso – e per le donne autistiche la probabilità di sposare un uomo autistico è 10 volte maggiore che se fosse puramente casuale.
In gergo si riassume dicendo che l’autismo è fattore di “accoppiamento assortativo”; io ci scherzo sopra dicendo che dopo la diagnosi mi sono bastati pochi giorni per scoprire che non ho una famiglia, ma un “castello incantato” pieno di “spettri autistici”.
Non posso quindi dire che sono una “persona con autismo”: sono una persona ereditariamente, essenzialmente, eternamente autistica – anche se trovassero il modo di “normalizzare” il mio genoma, non potrebbero ricostruire il mio sistema nervoso; non prevedo di avere figli, ma non vorrei cercare di privarli dell’autismo, tanto più che un recente studio mostra che l’autismo ha diversi alleli in comune con quelli che producono una grande intelligenza, e per i miei figli vorrei il meglio.

Non tutti però sanno prenderla con altrettanta souplesse, anche perché uno studio (tra i tanti) mostra che avere a che fare con dei figli autistici è una fonte di stress cronico (superiore anche a quello prodotto da figli con altre disabilità), che dei genitori autistici gestiscono peggio degli altri, anche perché gli è più difficile contrastarlo cercando supporto sociale.
Il risultato è che si cercano rimedi risolutivi, anche tra quelli di cui la medicina ha già dimostrato inefficacia e pericolosità – ne parlerò in un altro articolo; qui mi limito a dire che servono solo a sciupare tempo e denaro di cui il proprio figlio potrebbe avere gran bisogno – e tra i bambini che hanno subìto queste cure non è sempre facile capire se sono state solo inefficaci od anche nocive, ovvero se i disturbi che i bimbi continuano a manifestare (mentre molti bambini autistici migliorano crescendo) sono la dimostrazione che la loro condizione era particolarmente intrattabile, o la conseguenza di terapie che non si dovevano neppure tentare.

Io ho parlato di me che sono affezionato al mio autismo. Sono il solo? No, conosco diverse persone con la mia stessa opinione, che sostengono il paradigma della “neurodiversità”, ovvero che come la biodiversità aiuta la vita sulla terra, così la diversità tra i cervelli umani giova alla società.
Voler sopprimere l’autismo, l’ADHD, il disturbo bipolare, la dislessia e gli altri disturbi specifici dell’apprendimento, la sindrome di Tourette, ed altre condizioni che potrebbero entrare nel paradigma, renderebbe l’umanità molto più povera.
E non ci sono solo le persone con queste caratteristiche a voler essere accettate per quello che sono, compresa la disabilità.

Ho letto tempo fa il libro di una donna disabile fisica, Nancy L. Eiesland, intitolato “The Disabled God. Toward a Liberatory Theology of Disability”, nel quale si rifiutava la separazione tra la persona e la sua disabilità, e la nozione per cui esisterebbe solo un modo corretto di incarnarsi ad immagine di Dio, rispetto al quale tutti gli altri sono deprecabili eccezioni da correggere.
Un’altra teologa protestante, Megan De Franza, ricorda un passo biblico (Isaia 56:3-5) in cui si parla di una persona inetta a generare (il termine ebraico saris sembra in questo caso significare “intersessuale”, più che “eunuco” – ne avevo discusso qui), e si pone due domande teologiche:

  1. La resurrezione finale “guarirà” dalla disabilità o dall’intersessualità?
  2. Disabilità ed intersessualità sono frutto del peccato di Adamo o fanno parte del progetto divino originario?

Alla prima domanda la risposta l’ha data Isaia e la ripete la De Franza, appoggiandosi ai teologi della disabilità: la disabilità e l’intersessualità non scompariranno, ma l’Eterno farà in modo che non facciano soffrire nessuno.
A questo punto, queste due condizioni vanno considerate parte del progetto divino originario, non aberranti conseguenze del peccato di Adamo – il quale non le ha create, ma le ha rese occasione di sofferenza e, con linguaggio non teologico, “siti di intersezionalità”.
Chi vuole e può “risolvere” la propria disabilità lo faccia pure con tutto l’aiuto possibile, ma nessuno è tenuto a farlo, e noi dobbiamo accoglierlo così com’è.

 

 

Raffaele Yona Ladu
Ebreo umanista gendervague
Socio di Autistic Self-Advocacy Network
©2018 Il Grande Colibrì

 

Potrebbe interessarti anche

Ebre* umanista gendervague

Leave a Reply