Skip to main content

«Da quel luogo si vede Comala,
Che imbianca la terra,
e che durante la notte la illumina.
E la sua voce era nascosta, quasi spenta,
come se parlasse tra sé e sé….Mia madre»

Pedro Páramo, Juan Rulfo

 

Canti rituali e autobiografie in versi

Maria Carta è ricordata, a distanza di anni dalla sua scomparsa, per il modo peculiare con cui utilizzava la voce in un canto che sembrava provenire da un passato remotissimo, ma che, tuttavia, era in grado di toccare, alle porte del ventunesimo secolo, la sensibilità delle platee più disparate: da quelle dei piccoli paesi sardi più abituati a tali sonorità, a quelle più elitarie e lontane geograficamente e culturalmente, dal Bolshoi alla Carnegie Hall. Il merito era forse del peculiare timbro vocale e dell’uso sapienziale del vibrato, che riuscivano a oltrepassare persino le barriere linguistiche e culturali.

Per circa vent’anni, a partire dai primi anni ’70 sino ai primi anni ’90 del secolo scorso, Maria Carta è stata la voce della Sardegna, una delle prime donne a rendere celebre un genere musicale, generalmente appannaggio maschile, come quello dei gosos, e a portarlo fuori dai confini regionali e nazionali. Ripercorrendo a ritroso la vicenda personale dell’artista, ci ritroviamo nei primi anni ’30, in un piccolo villaggio nel centro del Mediterraneo. È lì che nasce Maria Giovanna Agostina Carta, da una famiglia molto umile. La bambina apprende sin dai primi anni di vita a lavorare e a cantare (quasi contemporaneamente), inizialmente motivi religiosi e tradizionali. Maria sembrava  segnata da un destino quanto mai arduo, simile a quello di tante sue coetanee, dedite alle allora comuni “mansioni femminili” nei campi e nell’accudimento della famiglia. Nel 1958, tuttavia, le si presenta un’opportunità che l’allontanerà da quell’ambiente tanto amato, ma decisamente claustrofobico: vince  la fascia di miss Sardegna e ha la possibilità di studiare fuori, “in continente”.

L’allontanamento fisico non recide il legame con le proprie radici, anzi, lo fortifica e favorisce la creazione di un canto della memoria caratterizzato da una rielaborazione totalmente personale.

L’accademia di Santa Cecilia di Roma, che frequenta con impegno, le offre gli strumenti tecnici e teorici per portare avanti un  lavoro lodevole di recupero, documentazione e rielaborazione del materiale etnomusicale sardo che le permetterà di ottenere, tra i vari riconoscimenti, una cattedra in antropologia culturale presso l’Università degli studi di Bologna, durante l’ultima tappa della sua vita.

Con il trasferimento a Roma, avviene l’ingresso ufficiale di Maria Carta nel mondo della musica e del cinema. Pubblica il primo disco, lavora con Francis Ford Coppola e Franco Zeffirelli e finalmente, nel 1975, la cantante di Siligo dà vita all’unica incursione nel mondo dell’arte poetica della sua carriera.

Di questo amore breve ma quanto mai intenso e fruttuoso ci è rimasto un lavoro dal titolo evocativo di “Canto rituale“. Quando venne scritto, l’interesse verso la musica “etnica e le tradizioni popolari stava aumentando tra il grande pubblico: sotto l’egida di persone come Peter Gabriel, ad esempio, molti musicisti non mainstream vedevano la loro opera diffusa e apprezzata dalle platee mondiali.

Canto rituale” è un sorta di (auto)biografia in versi, non soltanto dell’autrice, ma ancor più del contesto socio-culturale in cui la sua attitudine artistica e la sua personalità si sono formate, a partire dall’infanzia sino alla prima giovinezza.

La voce narrante è l’anima collettiva delle donne dell’isola: la parola sacrale dell’attittadora (donna che nella tradizione sarda canta la vita del defunto durante il rito funebre), antica sacerdotessa millenaria, costruisce un ponte tra il passato e il trapassato, tra il mondo dei vivi e quello dei defunti, o meglio, degli avi, che vegliano su questo mondo di rimitanos (povera gente, disgraziati). Scrive a questo proposito Maria tramite il personaggio di Diona Corraine: “I nostri di ieri, fiammeggianti, ci donano la forza di vivere“.

In questo “mondo di ombre”, vita e morte si muovono ostinatamente parallele e comunicano per chi le voglia ascoltare o per chi ne abbia le chiavi d’accesso.

I diversi piani sia testuali che spazio-temporali della raccolta poetica si intersecano su più livelli in maniera tale da essere più simili al mondo letterario/culturale del “Pedro Páramo” del messicano Juan Rulfo che alla “Spoon River” dello statunitense Edgar Lee Masters, a cui spesso viene paragonata per via della carrellata di ritratti minuziosi davanti ai quali chi legge si sofferma come in un’enorme pinacoteca di famiglia.

Un approccio simile a quello stilistico, lo si evince anche sul piano linguistico e contenutistico. Tutti questi aspetti nodali del testo permettono di rintracciare una sorta di “sorellanza”  tra il percorso memoriale/artistico di Maria Carta e quello della cilena Violeta Parra, nella raccolta poetica dal titolo “Decimas: Autobiografias en versos“.

Entrambe le scrittrici fanno un ampio uso all’interno del testo poetico dell’idioma locale, riuscendo a intersecarlo perfettamente con le lingue nazionali ufficiali: il castigliano standard nel caso di Parra e l’italiano in quello di Carta. Le parole  appartenenti in modo esclusivo al sardo o alla variante cilena non si mimetizzano timidamente ma sorreggono le lingue principali, donandogli forza espressiva e personalità autorale. Esistono tante circostanze nelle quali si può ricorrere alla lingua madre: a volte non vi è altro modo per trasmettere esaurientemente una determinata realtà, altre volte il carico emotivo che le genera è talmente dirompente da non permettere alcun filtro che si anteponga tra il sé più intimo e gli interlocutori: “Adesso Ziu Malune senza libertà / è rutu in disgrazia / ma avrà aiuto da Noi / S’homine depet semper esser homine” (Adesso l’anziano Malune senza libertà è caduto in disgrazia, ma avrà il nostro aiuto: l’uomo deve essere sempre coraggioso).

Le commistioni tra i diversi sistemi linguistici sono numericamente e letterariamente tanto rilevanti da richiedere la presenza di un glossario a integrazione del testo poetico, per renderlo più facilmente fruibile ai lettori.

Violeta Parra ricorre a schemi metrici molto rigidi (verso ottonario e raggruppamento in decime) in cui coniuga rima baciata e rima alternata in modo da costruire una struttura “cantabile” in cui l’accentuazione sempre differente delle sillabe è l’unico mezzo che interviene a spezzare un ritmo altrimenti ripetitivo. Maria Carta, invece, si lascia trasportare dal verso libero e da una struttura quasi prosastica.

Il ricorso a due sistemi metrici tanto differenti è da ricercarsi nell’intento iniziale rispetto all’utilizzo dell’opera, che nella cantante cilena rimane la musica (adattò i suoi versi alla musica), mentre in Maria era la letteratura, un’opera che si discostasse fortemente dalla (sua) precedente produzione musicale.

Dal punto di vista stilistico, le due realtà che ci vengono proposte, pur lontane temporalmente e geograficamente, sono accomunate da un’aura inesorabilmente tragica, da cui sembra impossibile potersi emancipare completamente se non a prezzo di oltrepassare una frontiera, territoriale o dimensionale: è il caso del disterru, ovvero dell’esilio forzato dell’emigrante, o dell’incontro inevitabile con la morte.

Quell’attittadora onnisciente che narra la vida ‘ona degli abitanti del villaggio e quella meravigliosamente complessa, cantautrice girovaga, rappresentano sia una sorta di Mater dolorosa come sostiene Paolo Pillonca nella prefazione al testo di Carta che, aggiungo io, un riproporsi contemporaneo e inaspettato dalla figura mitica della Llorona (fantasma tormentato di una donna che aspetta il ritorno dei figli da lei uccisi) della tradizione messicana. Sono donne reali, combattive, ma anche fantasmi femminili che versano lacrime amare per la morte dei propri figli sulle rive del fiume, quelle che incontriamo nei due testi.

Tale e tanto doloroso errare viene rievocato nei versi di “Canto rituale” dalle immagini delle tante donne con le ceste in testa piene di fatica e disperazione che vagano per i margini del fiume in attesa di lavare i panni sporchi della propria famiglia e metaforicamente della società che le relega a quel ruolo. Nelle decimas di Parra, invece, divengono il rimorso di una donna che non è riuscita a difendere la sua creatura dalla morte.

Gli scenari e le vicende tramite cui le poetesse ricostruiscono il tempo mitico della propria infanzia non vogliono ricreare un mondo puramente mitico, pur rimanendo in comunicazione con esso, né  un’immagine bucolica dei loro paesi, in cui uomini e donne fiere vivono in una terra difficile. Il ricorso a una scrittura cruda, seppur elegante, sembra voler ricordare proprio questo a chi legge. L’uso del linguaggio aulico o arcaicizzante viene dosato sapientemente e serve a smascherare più che a edulcorare lo stereotipo dominante diffuso all’esterno dei luoghi che vengono descritti.

L’obiettivo delle scrittrici è quello di scavare nella quotidianità di un territorio segnato dalla povertà e dalla mancanza di riconoscimento da parte delle istituzioni statali, o nel quale lo stato stesso, in quanto sottomesso a un regime dittatoriale, è nemico del suo popolo.

In questa prospettiva, la dimensione politica non può essere omessa o sottaciuta. Prendono quindi piede tra i versi problematiche mai risolte di ordine sociale ed economico che ancora oggi stentano a trovare una risposta a livello nazionale e globale: gli incidenti e le morti bianche sul lavoro, l’emigrazione e la clandestinità, le difficoltà economiche e lo sfruttamento dei territori, la malattia dovuta all’indigenza, la mancata corrispondenza tra leggi locali e leggi statali.

Alle ferite collettive si sommano o sovrappongono quelle personali che hanno ispirato alcuni dei versi più suggestivi delle due raccolte. Maria Desole, alter ego quasi omonimo dell’autrice sarda, espone con sentita partecipazione i dolori dovuti alla perdita prematura del padre, alla fatica del vivere e alla costruzione della propria identità femminile in un contesto ostile. Tali tematiche vennero affrontate mirabilmente, perché condivise, dalla collega latinoamericana.

 

La morte, il sogno, il delirio e il destino: l’entrata in scena della Mater Dolorosa

L’identificarsi della protagonista con la figura materna, il dolore della partenza e la gioia del ritorno a casa, la maternità agognata, maltrattata e recisa, la lotta per l’autoaffermazione e per i diritti delle donne e la preparazione al più brutale degli incontri, quello con la fine dell’esistenza, sono altre finestre comunicanti tra i mondi letterari di Maria Carta e Violeta Parra.

Il ruolo femminile nelle società contadine implicava per entrambe l’essere sottoposte a rigidi schemi di genere che vedevano la donna come un essere esclusivamente accudente: il lavoro in casa doveva integrarsi con quello altrettanto faticoso nei campi. Dall’esperienza appresa in quei contesti, credo che le due scrittrici abbiano ereditato la perseveranza, la forza d’animo e una resistenza inusitata agli scherzi improvvisi del destino.

La morte, questo è forse il tema centrale in entrambi i testi, ci appare sotto disparate spoglie: è nella violenza dell’uxoricidio e nella malattia che consuma animali e uomini, è nella perdita della madre, in “quell’attimo infuocato nel tempo“, come diceva Maria, è nella guerra raccontata dal maestro ai suoi allievi pastori, è nel tempo sospeso che precede le faide, è nella natura e nel suo opposto: l’industrializzazione cieca. Per Violeta è anche nel senso di colpa che consuma, è nella dittatura crudele che distrugge famiglie e speranze.

Nella cosmogonia ricreata dalle due autrici esiste una comunanza che appare indissolubile tra l’essere umano, il sole (quindi la vita), la luna e la morte. Tale ottica trova corpo nel personaggio mitologico di “sa mama e su sole” (la madre del sole) della tradizione sarda che terrorizza i bambini nelle ore più calde della canicola ma che, al contempo, è la genitrice di colui che permette all’umanità di vivere: “Venite! Al fuoco non entra sa morte!” urla Maria l’attittadora a chi deve rifugiarsi dal gelo.

Esiste tuttavia un ponte tra la vita e la morte, una sorta di arcobaleno percorribile attraverso il sogno. Le storie di queste due donne ci riportano, tuttavia, alla realtà, rivelando a chi legge che l’adagio “S’innotzente non bi depet prangher mai” (l’innocente non dovrebbe mai piangere) purtroppo non sempre trova conferma nella vita reale.

A questo punto entra in gioco un tema strettamente connesso a quest’ultimo e, al contempo, potremmo dire speculare, che riguarda Dio e la spiritualità collettiva e personale: “Nonostante tutto noi (umani) siamo semprevivi […] esili steli nella brughiera” dice Maria Desole (Carta) tra le pagine del libro.

È in questa precarietà nella vita e nella morte che si colloca la figura di Dio più che nella dicotomica contrapposizione cattolica fra bene e male.

In un particolare frammento di disperazione o di incontenibile euforia prende piede il delirio, quello stato d’animo al contempo trascendentale e tragicamente umano che ci connette all’elemento divino dentro e fuori di noi, ben descritto nel “Pedro Páramo” di Rulfo dalle parole di Juan Preciado: “Credetti che quella donna fosse pazza. Poi non credetti più nulla. Mi sentivo in un mondo lontano e mi lasciai trascinare. Il mio corpo che sembrava afflosciarsi, si piegava davanti a ogni cosa, aveva sciolto i suoi ormeggi e chiunque poteva giocarci come se fosse di pezza“.

Il Dio a cui gli abitanti del villaggio sardo fanno riferimento è certamente quello cattolico, ma visto in un’ottica non “istituzionale”. Il creatore è percepito a tratti come distante, esattamente come lo Stato, lontano, come se si fosse perduto in un buco nero spazio-temporale remotissimo. È tra le tante pieghe prospettiche del testo che è possibile intravedere in controluce le reminiscenze di un paganesimo di matrice precristiana a malapena sopito.

Nelle “Decimas” di Parra, l’approccio verso la divinità è per alcuni versi differente, si fa più esplicito ma non necessariamente meno problematico. Sono continue le invocazioni della cantante cilena ai santi e alle figure centrali del cristianesimo, in occasione di situazioni drammatiche o di inaspettate gioie, tanto da divenire un vero e proprio fil rouge che unisce tra di loro le varie composizioni della raccolta poetica.

Se ha de asombrar hast’el diablo / con muchas bellas razones / como en las conversaciones / entre San Peiro y San Paulo. […] Si el canto no le da miles / válgame Dios, la cantora. […]  Al verlo a primera vista / parece mi lindo abuelo / algún arcangel del cielo / gemelo de Juan Bautista” (Persino il diavolo si deve essere stupito con tante belle ragioni, come nelle conversazioni tra San Pietro e San Paolo. […] Se la canzone non te ne dà migliaia (di ragioni), che Dio aiuti la cantante. […] Quando lo vedo, a prima vista sembra il mio bel nonno qualche arcangelo del cielo, gemello di Giovanni Battista).

Un discorso a parte merita la corposa parentesi inerente il “velorio del angelito” che, seppur di matrice spirituale, rappresenta innanzitutto un prolungato e toccante atto di amore materno suddiviso in quattro parti. In questo caso la fede conforta e accompagna il dolore inesprimibile della perdita di un figlio, in cui si fa strada e prende forma una certa comunanza tra la propria storia intima  e la passione di Cristo vista attraverso la figura mariana: “Maire mía, no me llores / porque me voy d’este mundo / con sentimiento profundo / te dejo mil sinsabores. / Resuenan ya los tambores / y la música de los cielos / recibe como un consuelo / la gloria que me ha llamado / por no tener ni un pecado / me saca del triste suelo” (Madre mia, non piangere per me, perché sto lasciando questo mondo, con profondo dolore ti lascio mille affanni. I tamburi già risuonano e la musica del cielo ricevo come consolazione, la gloria che mi ha chiamato per non avere neppure un solo peccato mi toglie dalla triste terra).

Il destino (e la determinazione nel seguirlo) conducono entrambe le autrici in terra straniera. La Francia interseca i loro percorsi: in questa nazione l’una trova una seconda patria, l’inizio di una nuova vita personale e artistica, l’altra la fine della carriera e l’addio alle scene. Violeta, in particolare, si è ritrovata a Parigi in condizioni quanto mai precarie, in fuga dalla Polonia: «Viví clandestinamente / con tres chilenos  gentiles / lavandoles calcetines / cuatro días justamente / de noche pacientemente / voy de bolinch’en boliche / para pegar el afiche / del nombre de mi país / me abre su puerta París / como una mina’e caliche” (Ho vissuto clandestinamente con tre cileni gentili, lavando loro i calzini solo per quattro giorni. Pazientemente la notte vado di taverna in taverna per appendere il manifesto con il nome del mio paese. Parigi mi apre la porta come una miniera di salnitro”.

Maria avendo vissuto soltanto l’esperienza della migrazione interna, e in maniera non così estrema come Parra, ricorda con partecipazione le storie dei suoi tanti conterranei “dispersi” nel mondo in cerca di fortuna.

Maria Carta e Violeta Parra sembrano quindi aver condiviso, a distanza di una generazione soltanto, un destino parallelo che le ha condotte, nate umili e cresciute in un contesto periferico e svantaggiato, ad affermarsi ad altissimi livelli in ambito artistico.

Sarebbe ingenuo pensare che a cambiare le loro vite sia stato soltanto un trasferimento dalla campagna alla città, una lotta tra “civiltà e barbarie”. Certamente nel viaggio di Violeta a Santiago del Cile dal fratello Nicanor (poeta) e di Maria a Roma con il marito sceneggiatore, è riconoscibile una possibilità di riscatto e un cambio di prospettiva che ha permesso loro di osservare la propria cultura d’origine da lontano, e per questo forse più nitidamente. L’apporto in questi cammini artistici e personali di figure fondamentali del panorama culturale mondiale, Pablo Neruda e il fratello Nicanor per Parra e Ennio Morricone e Zeffirelli per Carta, ha svolto anch’esso il suo ruolo, ma è soprattutto nel talento inusitato delle due artiste e nel loro spessore umano, forgiato dalla vita e dallo studio, che va riconosciuta la chiave di tanto successo.

A testimonianza della loro grandezza parlano i versi che ci hanno lasciato, tramite i quali gli avvenimenti biografici vissuti hanno prodotto opere memorabili sul piano letterario e musicale.

 

Massi Carta
©2021 Il Grande Colibrì

Leave a Reply