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Stacci nel dolore,
per sentire.
Parti da lì.

Le parole mi si rincorrono nella testa e il cuore mi batte forte, mi rimbalza addosso e detta un ritmo urgente. Batte di impotenza, batte di rabbia. Non ho mai saputo gridare, mi dicevano che la rabbia non è utile ed è sconveniente mostrarla…mi dicevano che tanto, se anche ti arrabbi, poi non cambia niente. Mi dicevano che poi, se ti arrabbi tu, allora si arrabbia anche chi ha il potere su di te – bambina – in un crescendo di cattiveria che dimentica i filtri e il miele e allora è peggio, per te: ti umilia e ti fa sentire dritta dritta nel cuore che sei sbagliata – solo ora lo so, che era così. Quindi meglio tenersela dentro la rabbia, chiudi gli occhi, spegniti. Stai zitta e accumula, schiaccia tutto fino in fondo, fino a non sentirlo più.
Forse per questo dimentico facilmente.
Ho imparato a scriverle, le parole urlate nei pensieri. Carry you oggi mi tira fuori le lacrime e mi fa sentire esposta, terribilmente. Porto in giro una persona rotta che adesso perde le armature, frana. Piango, non ci sono più. Poi tutto diventa un fiume, il mio, e mi ci ritrovo – grata. Allora posso urlare, questa rabbia non mi spaventa: mi dà forma, sono io. Scorro e scrivo, cresco, cresco e scrivo, mi rileggo e ripercorro quei passi un’altra volta, rallento, mi ci fermo. Conservo la piena, ma non voglio disperderla.

La matassa
Con che diritto vi riempite la bocca di questi donne per donne, ostetriche per le donne? Quante di voi scenderebbero in piazza per un Pride? Quante l’8 marzo, quante per l’aborto, quante per la GPA? Quante per il matrimonio egualitario? Quante per la PMA accessibile a tutte e tutti? Se non siete pronte a fare almeno tutto questo, allora, sciacquatevi la bocca prima di parlare alle donne, e a me con loro.
Parlo a voi che vestite i panni di sentinelle immortali della favola del “vissero felici e contenti”. A voi che non citate – con orgoglio, bimbe! – le fonti dei contenuti che pubblicate come se fosse svilente, vi togliesse punti. Ah già, perché voi non fate le ostetriche ma siete ostetriche, dentro, nel profondo, dalla nascita, da sempre; per vocazione, per amore. Quante volte ce l’hanno ripetuto tra i banchi di quella rinnovata classe che chiamavano Università… Incarnate uno dei più soffocanti stereotipi e non lo sapete: il lavoro di cura deve essere fatto con amore e per amore, e mostrato come tale – raccomanda la società. Lo vedete, colleghe?
Se non siete pronte a festeggiare un Pride e a lottare per l’aborto, c’è qualcosa che non va. Dov’è il confine tra ciò che (non) sento e (non) desidero e l’intolleranza che mangia terreno intorno al vostro piedistallo? Vi sentite legittimate a dirci come si fa, forse in dovere di. Mi raccontate la maternità a tinte pastello, che trasuda un amore visibile e innegabile che vince su tutto e sempre, ma io lo so che raccontate un’illusione, e di questo siete responsabili. Ne siete responsabili nei confronti di tutte quelle donne che non hanno gli strumenti per sospettarlo, perché non conoscono, o perché voi, ostetriche per le donne, non glieli date.

Il filo
Penso che sono parole difficili e che alla fine sono solo stanca.
Stanca di vedere corsi per mamme-e-papà, immagini di pance e coppie, figurine maschio/femmina declinate in vari modi, cuoricini e tinte tenui che ripropongono – impongono! – uno stereotipo, e chi le sceglie è co-artefice delle sue catene. Se chi è professionista della salute provasse a guardare da un punto di vista differente riconoscendone pari dignità, rispetto e valore, se ne accorgerebbe: si accorgerebbe che queste immagini così non vanno bene, che non rappresentano tutte le famiglie; si accorgerebbe che queste parole e questi simboli così fiabeschi non vanno bene, ingannano.
La maternità e la gravidanza non sono idilliache per tutte le donne, non per tutte sono momenti magici da vivere ascoltandosi, preparandosi, nell’”attesa di”. Non per tutte il desiderio più grande sarà stringerlo/a tra le braccia, non tutte se ne innamoreranno a prima vista, non tutte saranno felici di come cambierà la loro vita, non tutte vorranno mettersi da parte o rinunciare. Non tutte desidereranno essere madri, sono io la prima; ma non se ne parla. Come se non ci fosse niente da raccontare, sul perché scegliere la maternità: se pensi di interrompere una gravidanza devi passare da una valutazione psicologica, devi giustificare la tua scelta ed è bene che tu ci pensi seriamente, alla scelta che pensi di voler fare (sei sicura?? E se poi te ne penti?); se scegli di proseguirla invece no, nulla da verificare, nessun “e se poi te ne penti?”. È semplicemente la strada giusta, non sei contromano: corri nelle braccia della maternità, ti si fa spazio!
Penso che sono parole difficili. La capacità critica per cambiare le narrazioni forse è arrugginita più che altrove, nella mia categoria. Ah già…su quella non investono, nel mio corso di laurea. D’altra parte, non posso certo aspettarmi un approccio autentico, direi disincantato, da chi sta dentro il sistema, da chi ne segue le tappe, con pomposa gratificazione.
Sono arrabbiata, io non sono così. Ho sentito la responsabilità di quello che avrei detto alle donne e l’ho riscritto a modo mio. Laureata, ho fatto un passo indietro: pausa. Ho cercato quello che non mi convinceva di quel percorso di studi e l’ho cambiato, perché fosse autentico e affidabile, perché mi rispecchiasse; perché anche i miei desideri e tutte le strade altre, avessero finalmente un linguaggio per raccontarsi ed esistere. Forse voi non ve lo siete ancora chiesto, da che parte state, e non lo vedete, il danno che fate; colleghe.
Tanto di quello che so farebbe la differenza, in ogni singola vita. Ma sono come senza voce. Le mie parole muoiono in una realtà virtuale che consuma contenuti, e annacqua, cui non voglio più sottostare; le mie parole muoiono in una realtà metropolitana capitalista, dove se non produci e non sei produttiva, sei fuori. Le mie parole muoiono in una libera professione che ci obbliga alla cassa previdenziale commercianti, riscuotendo seicento euro di contributi ogni tre mesi, da subito; le mie parole muoiono nell’immobilità di questa situazione: pare non ci sia nulla che si possa fare. Le mie parole muoiono perché se non riesco a farcela da sola, allora meglio di no, meglio non sottostare a favori e ripicche pur di avviare una professione e ingranare, chissà dopo quanto e chissà a che prezzo; vinco la libertà di vivere come voglio e andare via, sulle mie gambe. Le mie parole muoiono nelle logiche del profitto e della concorrenza, non ci so stare. Le mie parole muoiono tra le voci affollate di chi, donna per le donne, racconta favole sulla maternità, premendoci le mani sugli occhi finché non sarà proprio necessario aprirli. Le mie parole muoiono a farsi largo tra gli uomini grigi¹. Le mie parole muoiono imbavagliate perché non ho radici. Ma forse, meglio così.

Ossigeno
Mi sento mortale in un mondo di automi, terrestre in un mondo sommerso. Credo nella condivisione dei saperi, nel confronto rivelatore, nella comunicazione disinteressata, fuori dalle logiche di mercato, credo nel dire e nel fare coerenti. Credo nel cambiamento che parte dal basso, dal quotidiano, e sa stralciare le qualifiche, i curricula. Credo nel fare qualcosa insieme, con chi ci crede quanto me.
Mi sembra di vivere staccata, i confini li ho infranti tempo fa.

 

 

Silvia Osimo

  1. Michael Ende, Momo, Longanesi, Milano 1984

One Comment

  • Marta ha detto:

    Molto spesso viene proposta un’immagine idilliaca e appiattita della maternità e delle donne (da professionisti e non) ma studiando e lavorando come ostetrica in primis si vive sulla propria pelle quanto questa sia lontano dalla realtà. La gran parte delle ostetriche tutti i giorni si confronta con questo gap e cerca con i propri mezzi di colmarlo nell’interesse della persona assistita, sicuramente bisognerebbe costruire un sentiero univoco.
    Penso che nella rabbia generata da un contesto legislativo-sanitario ingiusto e schiacciante per le minoranze e anche per la professione ostetrica si possa rischiare di fare di tutta l’erba un fascio, mentre nel nostro lavoro contano più che mai i singoli momenti di non giudizio e accoglienza con chi assistiamo nella quotidianità. Dovrebbe essere scritto nel nostro DNA professionale quanto ”per le donne” significa con tutte le donne: etero, omo e bi, cis e trans, genitori o non genitori. Questa critica arrabbiata e fuori dal coro ci aiuta a ricordare quanto l’inclusività dovrebbe essere sempre propria anche della professione ostetrica.

    Marta Mazzeo Melchionda
    Ostetrica e consigliera dell’Ordine delle ostetriche di Bergamo Cremona Lodi Milano e Monza Brianza

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