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Diciamolo subito: di Achille Lauro me ne frego e men che mai mi interessa fargli il santino. Lauro è un pretesto: perché come strumento per togliere la polvere dalle questioni che sta aprendo (io credo consapevolmente) è invece molto interessante. Tutine, glitter, Ziggy Stardust, la marchesa Casati Stampa ed Elisabetta I non sono il tema: di travestiti/e e trasgressori la storia di Sanremo è piena. Il tema sono le parole: su Instagram per raccontare il senso del suo “travestimento”, Achille dice testualmente che ha scelto di indossare Ziggy in quanto emblema di una libertà sessuale che è antidoto alla maschilità tossica. In pratica lo stesso linguaggio dei Pride e di qualunque movimento di liberazione sessuale. Quindi non stiamo assistendo solo ad una “messa in scena”, che ovviamente c’è e con la quale Lauro e il suo staff giocano in maniera magistrale, ma anche ad una serie di parole che la raccontano e le danno un significato. Tanto per citare alcune icone più o meno a ragione chiamate in causa per dimostrare che nulla di originale c’è nella teatralità di Achille (ancora una volta: è questo il tema?), non mi pare che Renato Zero abbia mai raccontato i suoi travestimenti con tale profondità di senso; così come non lo ha mai fatto David Bowie (che adoro in modo totale, sia chiaro, ma che quel lavoro lo lasciò a Ziggy) e nemmeno Freddie Mercury.

Questo per ricordare che persino i più grandi iconoclasti hanno spesso lasciato la trasgressione alle loro maschere per poi recitare la “norma” quando erano in abiti civili. Achillle, complici i social che rendono possibile ciò che non lo era ai tempi di David, sta provando a fare un’altra cosa: sta costantemente spiegando cosa significa per lui truccarsi, vestire attillato, ancheggiare, giocare con Boss Doms. Per chi lo segue su IG, è palese che da anni non esiste più un confine tra Lauro De Marinis e la maschera di Achille Idol/Achille Lauro: il gioco dell’abbattimento dell’immagine “maschile” è costante e sempre sbattuto in faccia. E non è limitato alle foto o ai servizi ad uso marketing ma è costantemente spiegato con abbondanza di narrazione. Achille parla sempre di fuga da un maschile tossico che lui ha ben conosciuto, frequentato ed anche accettato in molti pezzi dei suoi primi anni, nei quali l’equazione donna=prostituta era ben presente per non tradire gli archetipi del rap, ma non parla mai di un suo passaggio al Femminile. Lui. Siamo noi a parlarne e a provare a ricacciarlo sempre lì: lui parla di antidoto alla maschilità tossica e noi lo facciamo diventare, per questo, “una femmina”. Achille mette in scena il suo modo di essere maschio e noi guardoni gli facciamo notare che questo maschio pare un po’ femmina. E da bravi gatekeeper (che qui mi piace tradurre come “custodi dei confini”) lo gettiamo nel recinto del “femminile” o in quello del “gay”. Quando sui social sono apparsi alcuni stralci di una autonarrazione di Achille, uno dei commenti più ricorrenti era: “tutte ste parole pur di non ammettere che non gli piace la figa”. Così come molti miei amici gay, pensando forse di essere spiritosi, hanno scomodato paragoni con Beyoncé o Jennifer Lopez. Un maschio che sceglie di glitterarsi è quindi tirato per la giacchetta tra due estremi: gli etero lo accusano di tradimento perché non gli piace la figa e noi gay lo accusiamo di tradimento se non gli piace il cazzo. Troppo poco maschio per i maschi etero e troppo poco “donna” per noi maschi omosessuali. Ed è proprio questo il coperchio sollevato da Lauro che a me interessa: lo svelamento del maschilismo che invade il discorso pubblico non solo delle persone eterosessuali ma anche di noi omosessuali. I primi, risentiti perché vedono ridicolizzata la loro alphitudine, urlando dappertutto che il tizio non sa cantare o che non è originale o che il suo repertorio non è il massimo (spostando quindi altrove l’attenzione). Noi secondi, forse timorosi di essere spodestati dal nostro trono di custodi della trasgressione, facendo invece le pulci alla sua sincerità o richiamando costantemente i precedenti; fingendo di non vedere che sono tutte artiste donne o artisti dichiaratamente bi/omosessuali. Quel che salta immediatamente all’occhio è l’inutilità di spendere fiumi di parole per negare l’impatto deflagrante delle performance di Lauro: dinanzi a robetta da poco, di solito, si reagisce ignorandola in silenzio anche se per qualche ora tutti/e ne parlano.

Quindi che la scelta di Achille (e/o del suo staff, è realmente importante?) sia stata esplosiva lo dimostra persino lo tsunami di tentativi per dimostrarne la banalità o la malafede. E gli argomenti utilizzati, come la critica feroce ad alcune singole parole estrapolate dal suo scritto contro la maschilità tossica o l’inutilità dell’ergere Sanremo a palcoscenico dove sia performabile una rivoluzione (ma allora perché continui a parlarne, scusami?), dimostrano casomai la questione realmente centrale: non è Achille Lauro ad essere avanti, ma siamo noi ad essere molto indietro. Del resto questo è stato il Sanremo affidato a tre maschi (Amadeus, Fiorello, Tiziano Ferro) con una decina di donne presentate come coprotagoniste ma usate come corollario, a partire dalla infausta conferenza stampa col suo trionfo di “bella ma con tanto da dire” o con la ormai diventata celebre esegesi del “passo indietro”; il festival che in 70 anni non ha mai avuto una direttrice artistica, pur avendo avuto almeno 5 conduttrici; il Sanremo prima del quale Rula Jebreal ha dovuto attraversare le forche caudine per poter portare sul palco un monologo (guarda un po’ che caso) sulla violenza di Genere e sulle impari opportunità con cui comprimiamo la libertà di espressione delle donne. E’ stato anche il festival dei bacetti in bocca inoffensivi e da telewashing rassicurante tra Tiziano Ferro e Fiorello, di Roberto Benigni che illumina il palco con la sua lettura in chiave anche Lgbt+ friendly del Cantico dei cantici, di Tiziano che canta al maschile Almeno tu nell’universo e saluta in diretta suo marito, di Rancore che entra in scena con gli occhi truccati per essere a tono con la meravigliosa creatività e con la performance “oltre il genere” de La rappresentante di lista (che da anni giocano sullo stesso terreno di Lauro, e tutti/e lo saprebbero se solo avessero la fama che meritano).

Tutte queste cose dimostrano il punto di cui nessuno parla: Achille Lauro ha messo in scena non una questione, ma la questione della quale abbiamo un disperato bisogno di parlare. Lauro ha costruito le sue apparizioni in un modo che ha reso Sanremo “Achille con un Festival intorno” perché ha scelto di puntare i riflettori sul grande assente del dibattito pubblico italiano: la riflessione sulle questioni di genere. Noi siamo il paese che si è dimostrato negli ultimi 3 anni meno permeabile in assoluto rispetto alla gigantesca onda del #MeToo, il paese che è passato quasi senza soluzione di continuità dalla narrazione berlusconiana della maschilità a quella salvinina; siamo l’Italia dei social ridottti a colossale esibizione di misoginina ed omo/bi/transfobia, ed ancor più di lesbofobia; siamo l’Italia delle bambole gonfiabili portate sui palchi dei comizi per insultare e stuprare simbolicamente Laura Boldrini e delle magliette inneggianti all’uso di droghe dello stupro indossate da un vicesindaco alla festa di paese. E siamo, purtroppo, anche l’Italia di un movimento Lgbt+ che è tutto immerso dentro questa povertà culturale, attraversato com’è dal terrore verso le teorie (ed i collettivi) queer da una parte e dall’altra dalla vera e propria violenza di genere perpetrata costantemente contro le lesbiche e le loro elaborazioni. Il che spiega perché così tanti maschi eterosessuali abbiano sentito il bisogno di sparare su Achille Lauro, ma anche tante donne eterosessuali (forse perché hanno visto svelata la loro adesione a modelli di maschilità tossica e di femminilità subalterna) e persino tanti maschi omosessuali. Noi siamo molto pronti ad accogliere alleate donne (da Madonna, anche prima che rivelasse la sua bisessualità, all’ultima arrivata Taylor Swift) ma abbiamo qualche problema ad accogliere alleati maschi eterosessuali. Abbiamo un enorme bisogno che le nostre battaglie di liberazione diventino anche le battaglie degli uomini eterosessuali, ma quando un (t)rapper sceglie di parlare attraverso le nostre parole e le nostre pratiche, vivisezioniamo le sue intenzioni dicendogli “grazie, ma per favore sii più Maschio e non invadere casa mia”. Reclamando una esclusiva della critica al maschile che è ridicola, spesso falsa (perché quel maschile lo recitiamo assai spesso) e soprattutto fuori dal tempo. Per chi come me segue Achille Lauro sui suoi social, è evidente che sul palco di Sanremo il (t)rapper ha portato una versione gigantesca di quel che fanno quotidianamente moltissimi/e dei/delle suoi/sue follower. Truccarsi, usare capi di abbigliamento considerati femminili, esibire affettività anche tra ragazzi sono pratiche ormai molto diffuse tra i giovani maschi, a prescindere dall’orientamento sessuale. I ragazzi performano costantemente una fluidità nell’autonarrarsi come maschi che spiega perché le esibizioni di Achille Lauro hanno scatenato una immediata e rumorosissima ondata di entusiasmo, immedesimazione, riconoscimento di una rappresentazione che li raccontava.

Questa estetica è in sé un travolgimento della maschilità tossica? Ovviamente no e sarebbe da sciocchi/e pensare che sia questo il senso dell’affaire Lauro: sono proprio le sue canzoni a dimostrare che travestimento e linguaggi misogni/maschilisti possono purtroppo coesistere. Però lo smalto ed il rimmel ed il glitter sono comunque una assunzione di responsabilità; ed io ritengo che il compito di noi militanti Lgbt+ (così come delle femministe) debba essere di esaltare costantemente il senso di queste pratiche e la differenza che esse possono rappresentare; riconoscerle invece di criticarle attaccando chi le mette in scena. Il corpo di Achille Lauro, così come quello di tanti ragazzi nelle nostre strade, racconta ogni giorno di più la possibilità che la battaglia contro il maschile tossico può essere finalmente combattuta anche dai maschi eterosessuali: cioè coloro che quella maschilità la agiscono e non coloro che se ne chiamano fuori a priori (gay e femministe in primis). Questi corpi dimostrano che si può essere queer senza nemmeno saperla teorizzare la queerness: che nel caso di Achille Lauro è quel che dovrebbe essere, cioè una pratica, e che possiamo sperare diventi anche una elaborazione coerente. E forse è anche questa assenza di “cultura” che anima le critiche feroci che hanno accompagnato le performance di Lauro: senza comprendere che invece sono il suo punto di forza.

E’ proprio il suo passato da (t)rapper cantore di un mondo di droga, prostitute e polizia che lo rende così inedito; è proprio la sua mai negata adesione a quel maschile (eterosessuale) tossico che lo rende così imparagonabile alle icone della trasgressione del passato che vengono sempre citate per screditarlo. Achille Lauro non ha messo in scena l’abbattimento del maschile eteronormativo, ma ne ha messo in scena le premesse e la comprensione della necessità di prenderne le distanze. Achille lo fa) e questo racconta quotidianamente) per liberare innanzitutto se stesso; dimostrando così di aver capito che la maschera da macho è asfissiante non solo per chi ne subisce la violenza ma anche per chi la indossa. E lo ha dichiarato sul palco della messa cantata più nazional-popolare trasmessa dal mezzo più tradizionale in assoluto. Certo, mi auguro anche io che questa estetica diventi anche pratica e che lo si legga nei testi delle sue prossime canzoni; e che questo istinto di liberazione diventi esercizio di libertà. Ma intanto, l’aver scatenato il dibattito ha già probabilmente inciso sulle coscienze fosse anche di qualcuno dei suo fan: e se Sanremo ha prodotto ciò merita applausi e non esami del DNA.

 

Luigi Carollo,

Portavoce Palermo Pride

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