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La Giornata Internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia rappresenta una ricorrenza molto importante e significativa per i membri della comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersex, asessuali) sparsi in tutto il mondo. Celebrato per la prima volta il 17 maggio 2004, l’International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia (conosciuto anche con l’acronimo di IDAHOBIT) deve la sua nascita all’intuizione e alla volontà dell’attivista francese Louis-Georges Tin, da sempre molto impegnato nella lotta contro le discriminazioni, l’omofobia e il razzismo.

Lungi dall’essere frutto di una scelta casuale, quella scelta da Tin e dai suoi sostenitori è in realtà una data di grande valore simbolico.

Il 17 maggio 1990, infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) decise di depennare definitivamente l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, definendola «una variante naturale del comportamento umano» e non un disturbo della personalità da correggere e da “curare”.

Nel corso degli anni, l’IDAHOBIT ha assunto un peso e un’importanza sempre maggiori, arrivando a essere festeggiata in 130 Paesi e ottenendo il sostegno e il pieno riconoscimento di istituzioni del calibro dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite.

Un segnale indubbiamente fortissimo, che da solo però non basta a cancellare le sofferenze e le difficoltà con cui gli appartenenti alla comunità LGBT+ sono costretti a convivere ogni giorno e che, in questi difficili tempi segnati dalla presenza del nuovo coronavirus, sembrano solo essere aumentate.

Per meglio approfondire questa e altre tematiche strettamente collegate al mondo LGBT+ e ai suoi appartenenti, ho pensato di rivolgermi a Matteo Botto, pedagogista torinese nonché ideatore di ControNarrazioni, un bellissimo progetto di attivismo e ricerca nato «per dare voce a chi non ne ha sradicando pregiudizi e stereotipi». In esso potrete trovare riflessioni e testimonianze di persone che hanno subito o che sono state artefici di diversi tipi di discriminazioni. E che, attraverso quella che Matteo definisce «la forza emancipativa delle storie», hanno trovato il coraggio di cambiare profondamente il corso delle loro vite.

 

Matteo, la giornata internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia giunge quest’anno in un momento storico segnato da grandi incertezze e da mille difficoltà. Le misure messe in campo per arginare la diffusione del nuovo coronavirus rendono infatti impossibile organizzare eventi pubblici e manifestazioni su larga scala e costringono gli attivisti a escogitare nuovi metodi per evitare che una ricorrenza così importante passi quasi inosservata.

A tuo avviso quali sono e quali potrebbero essere i modi per dare comunque slancio e visibilità a questo particolarissimo 17 maggio?

 

Parto con una premessa: a mio parere, internet e i social sono stati il motivo per cui oggi la rappresentazione LGBT+ è così forte rispetto agli anni ’90.

Ovviamente c’è ancora molto da fare, ma luoghi come forum, blog e social hanno permesso a tutte le persone queer di entrare in contatto, scambiarsi esperienze, costruire un’identità propria e collettiva e agire sullo spazio pubblico.

Perché dico questo?

Perché è necessario far tesoro di questo pezzo della nostra storia per usarlo come strumento di lotta e di espressione.

Siamo rimasti nascosti fino a pochi decenni fa, e siamo riusciti a far luce sulla ricchezza della nostra comunità proprio grazie ad internet.

Riusciremo a fare altrettanto anche in quest’occasione, mostrando dai nostri profili social tutte le nostre riflessioni e le nostre storie in merito a quest’importantissima ricorrenza.

Perciò facciamo sentire la nostra voce dai nostri profili oppure partecipiamo attivamente all’organizzazione di eventi tenuti da organizzazioni e/o gruppi che ci ispirano.

Ormai internet è un vero e proprio luogo di aggregazione su cui le persone passano svariate ore delle proprie giornate, perciò dobbiamo e possiamo agire su questo versante.

 

La quarantena ha avuto e sta avendo effetti molto nefasti se non addirittura tragici sulle vite delle persone LGBT+ . In tutto il mondo si stanno purtroppo registrando gravi episodi di violenza, discriminazione e intolleranza ai danni di molti appartenenti alla comunità queer, che già in tempi “non sospetti” sono vittime di persecuzioni e abusi. Quali sono a tuo parere le ragioni che spingono le persone ad accanirsi con tanta ferocia su individui tanto indifesi e vulnerabili?

 

Il problema che vedo è a livello sistemico e non individuale.

Ovviamente chi odia deve assumersi le responsabilità del suo gesto, ma ricordiamoci che anche chi discrimina è vittima di un certo sistema sociale e valoriale, pur se con un posizionamento diverso. Infatti, è riduttivo pensare che l’odio sia una scelta: in realtà, si impara fin da piccoli in famiglia, a scuola e con i media.

Se, ad esempio, nasco in un contesto omofobo, vivo in un piccolo paesino in cui non vi sono associazioni/eventi LGBT+, la mia scuola non si interessa di educare ai diritti umani e la rappresentazione queer sui media del mio paese è molto scarsa o fortemente stereotipata, è quasi automatico che finirò per diventare omofobo anche io.

Cosa intendo dire con tutto questo?

Che non dobbiamo limitarci a lottare solo contro chi discrimina, ma contro il sistema che insegna alle persone a discriminare.

Un sistema che si è avvalso di una visione cis-etero-patriarcale che permette a pochi privilegiati di godere di tutti i benefit sociali ottenuti sfruttando le donne e altri gruppi sociali minoritari come quelli LGBT+.

Combattere solo contro le persone è come cercare di sradicare un albero staccando le sue foglie una a una: faticoso e inutile, perché al momento il patriarcato è un enorme baobab  e sono ancora troppo poche le persone che stanno cercando di buttarlo giù.

Dobbiamo agire sulla radice, affinché questo albero non produca più nessun frutto.

 

Spostiamoci ora in Italia e volgiamo lo sguardo alla situazione che ha vissuto e sta vivendo la comunità LGBT+ per così dire “nostrana”.

Secondo il tuo punto di vista, e facendo riferimento anche alle storie e alle testimonianze raccolte da te e dal team di ControNarrazioni, potresti per favore dirci quali sono le difficoltà e i problemi che quotidianamente si trovano ad affrontare gli appartenenti alla comunità LGBT+ del Belpaese?

 

È difficile rispondere a questa domanda poiché le situazioni possono essere assai diverse da persona a persona.

Non mi riferisco solo alla nostra diversità psicologica, ma proprio al nostro posizionamento sociale: infatti, essere un uomo gay bianco di classe media è ben diverso dall’essere una donna lesbica nera di classe meno agiata.

Con questa consapevolezza in mente, mi sento comunque di dire che tutte le persone queer in Italia soffrono di mancanza di rappresentazione.

Ho parlato con molte persone che pensano “Beh, non è un problema se nelle pubblicità, nei film, nei videogiochi e in tutti i media non mostriamo sempre ogni gruppo! Mi sembra solo un palliativo, il problema vero non è questo!”

Concordo che non sia l’unico problema, ma è sicuramente una delle radici principali del patriarcato che può dare vita ad un’escalation dell’odio.

Faccio un esempio pratico:

  1. Se tu e il tuo gruppo siete sottorappresentati nei media e nelle istituzioni, la popolazione percepirà meno la vostra ricchezza e la vostra diversità;
  2. Se la vostra diversità non viene resa visibile, è più facile che tu e il tuo gruppo possiate cominciare ad essere delineati con degli stereotipi, un meccanismo naturale che gli esseri umani usano per comprendere ciò che non conoscono;
  3. A lungo andare, se tu e il tuo gruppo continuate ad essere vittime di stereotipi, è molto probabile che le persone comincino ad avere pregiudizi e a vedervi come “diversi” e magari strani, pericolosi. Questo meccanismo diventa ancora più forte se tu e il tuo gruppo ricoprite un ruolo negativo in una narrazione proposta da qualche persona al potere (ad es. un menatore che dice che gli immigrati vogliono solo rubare i soldi che noi abbiamo guadagnato con tanta fatica);
  4. A questo punto, tu e il tuo gruppo siete in una situazione di pericolo crescente. Possono iniziare ad essere posti in atti dei veri e propri crimini di odio nei tuoi confronti perché non sei riconosciuto come persona, ma come un membro indistinto del tuo gruppo. Potresti cominciare a guardarti intorno quando cammini, o a dover porre attenzione ad ogni tua parola che esprimi in pubblico.
  5. Se tu e nessun’altra persona prendete posizione per denunciare questa situazione, la percezione del tuo gruppo può peggiorare al punto da essere infraumanizzati, ossia considerati come “meno umani”, e quindi persone di serie B con meno diritti, di cui le istituzioni non si occupano perché “ci sono cose più importanti a cui pensare”;
  6. Arriviamo quindi allo step peggiore, perché tu e il tuo gruppo rischiate di essere reificati, ossia considerati come degli oggetti. E sappiamo che è molto facile fare del male a qualcuno se lo concepiamo alla stregua di una bottiglia di plastica, se non ne riconosciamo il nostro stesso status di umano.

Se pensate che questo esempio sia esagerato, sappiate che è l’escalation che ha portato allo sterminio di 6 milioni di ebrei nella Germania nazista, e che vivono quotidianamente persone appartenenti a gruppi come l’etnia rom.

 

L’ultima domanda che ti pongo è in qualche modo strettamente collegata alla mia storia personale. Da persona queer e afroitalian@, mi sono spesso chiest@ se e quando sarà possibile iniziare una seria (e mi auguro serena) discussione sulle vite, le speranze, i sogni e i desideri delle nuove generazioni LGBT+ in Italia.

Credi che in un futuro molto prossimo sarà possibile aprire un dibattito che vada in questa direzione e che soprattutto metta, anzi ci metta, al centro di questo dialogo?

Nonostante i dati sulle discriminazioni in Italia siano molto allarmanti, rimango ottimista. Grazie ai social, noto che in quest’ultimo periodo si sono moltiplicati i profili che parlano di diritti e che si impegnano a sensibilizzare e a fare informazione sul tema.

Certo, c’è del marcio anche in questo: c’è chi lo fa solo per visibilità, chi lo fa male poiché non si informa abbastanza, oppure chi si presenta come una specie di guru dimenticandosi che il principale obiettivo non sono i like ma l’empowerment delle persone.

Nonostante ciò, stiamo assistendo ad un rinnovato interesse verso questi temi, e penso che solo continuando su questa strada potremmo riuscire a fare pressione per una società più inclusiva.

La storia dei diritti umani ci insegna che tutte le conquiste sono nate dal basso, mai dall’alto. Perciò dobbiamo continuare a vigilare e a non tenere la bocca chiusa.

Perché i diritti non sono mai stati regalati, e noi continueremo a richiederne il riconoscimento. Senza sosta.

 

Nicole Zaramella

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