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Il 20 Settembre 2019 ho avuto i primi dolorosi sintomi della spondilodiscite, che però è stata diagnosticata solo l’8 Ottobre 2019, giorno in cui sono stato ricoverato all’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona) – essendo un presidio ospedaliero accreditato, il conto (mostruoso!) del ricovero lo pagherà la Regione Veneto. Mi spiace, ma gli ospedali pubblici veronesi non sono stati capaci di diagnosticare all’inizio del 2019 due costole rotte, ed ora la spondilodiscite, per cui preferisco starne alla larga.

Parlandone sommariamente (oltretutto non sono un medico), la spondilodiscite è un’infiammazione (-ite) di un disco intervertebrale (dìskos, in greco) e delle vertebre (spòndylos, sempre in greco) adiacenti, che provoca dolori atroci e può danneggiare gravemente le vertebre, che rischiano di crollare e poi risaldarsi anormalmente deformando gravemente la spina dorsale. Un mio amico è stato particolarmente sfortunato, ed ha avuto due dischi e tre vertebre infette – ma è guarito molto bene.

Quando l’infiammazione è causata dal Mycobacterium Tuberculosis (il bacillo di Koch, ovvero della tubercolosi), cosa che ora accade soprattutto nei paesi in via di sviluppo, la malattia viene chiamata anche Morbo di Pott, e due illustri pazienti sono stati Giacomo Leopardi (probabilmente) ed Antonio Gramsci (certamente) – me ne sento onorato, anche se i medici escludono che sia il mio caso.

La cura è sia antibiotica (della durata minima di sei settimane) che antidolorifica (il paziente deve sopravvivere finché gli antibiotici non sbaragliano il batterio); nel 50% circa dei casi si riesce ad individuare il batterio ed impostare una terapia mirata; altrimenti si ricorre ad una terapia empirica, ricorrendo ad antibiotici ad ampio spettro nella speranza che eradichino l’agente patogeno – purtroppo, è il mio caso.

Durante la cura è fondamentale il clinostatismo, ovvero vivere in orizzontale, in modo da non rischiare che il peso del corpo, gravando sulle vertebre infette, le faccia crollare peggio del Ponte Morandi. Nelle fasi avanzate della cura, quando il batterio è sgominato, il dolore è almeno tollerabile, e le vertebre cominciano a ripararsi, è possibile sedersi ed alzarsi indossando un busto specifico (detto “C35” – non va comprato online perché va adattato al singolo paziente), che scarica la spina dorsale e riduce il rischio di complicazioni.

Dopo la guarigione e riabilitazione (vivendo in orizzontale i muscoli delle gambe si indeboliscono) è comunque particolarmente sconsigliato sollevare pesi. Può essere necessario un intervento chirurgico se le vertebre si sono saldate tra loro deformando la spina dorsale o comprimendo il midollo spinale, oppure per installare un “ponte” tra le vertebre sane sopra e sotto quelle che erano infette, che “scarichi” permanentemente queste ultime. Sono ancora in ospedale, la cura non è finita, e non so ancora se ne avrò bisogno.

Una cosa che le vittime della spondiliscite si chiedono è se la malattia sia contagiosa, e se magari una qualche inosservanza delle norme igieniche nei giorni precedenti ne abbia favorito l’insorgenza; la risposta che viene data è che i batteri che la provocano di solito sono già nel corpo, e semmai approfittano o di un trauma della spina dorsale, o di un’operazione chirurgica, o di una condizione di immunodepressione per provocarla. Inutile “cercare l’untore” in questo caso.

Dalla patologia alla clinica: vivere in orizzontale per un lungo periodo è una condizione insolita per un essere umano, e per questo ho pensato di descriverla su Io Sono Minoranza.

Chi vive in orizzontale scopre di non essere in grado neppure di mangiare e bere nel modo a lui consueto, e di non potersi alzare per raggiungere gli oggetti di uso quotidiano. Perciò impara a bere coricato, piegando appena il capo in avanti, e non riempiendo troppo il bicchiere perché il liquido non trabocchi prima di raggiungere le labbra; e quando mangia, nei primi tempi fa il “violinista” (soprannome datomi da un simpatico infermiere), ovvero prende il piatto del cibo, lo appoggia sul braccio sinistro piegato, e con il braccio destro usa forchetta o cucchiaio per portare il cibo alla bocca – sembra proprio che il piatto sia un violino e la posata l’archetto con cui lo suona.

La situazione impone anche di escludere alcuni cibi e bevande: se io a colazione mangio lo yogurt, il peggio che mi può capitare è di sporcarmi la maglietta; se io cerco di bere tè o caffè caldi, e traboccano, mi scottano, e poiché sono in orizzontale, non posso evitare i liquidi sporgendomi in avanti come farebbe una persona seduta. Pertanto, niente tè o caffè, e nemmeno minestre o zuppe.

Se con una mano reggi il piatto, con l’altra non puoi usare il coltello; si può chiedere agli infermieri di tagliarti il cibo, ma io sono orgoglioso, e nei primi tempi mangiavo solo cibi che si potevano prendere col cucchiaio (oppure tagliare col cucchiaio, come gli hamburger oppure alcuni piatti di pesce); ora mangio anche le tagliatelle, avvolgendole intorno alla forchetta.

Mi hanno messo a disposizione un comodino ed un tavolino; li ho fatti mettere accanto al letto, vicino alla testa, ed ho cercato di ordinare gli oggetti in modo da afferrare facilmente quelli più importanti per me.

Non riesco a lavarmi i denti – lo farò quando mi autorizzeranno ad alzarmi; e non posso andare in bagno a fare i miei bisogni. Nei primi tempi mi hanno messo un catetere, ed un pannolone; ora posso usare padella e pappagallo.

Il problema però non è solo quello di adeguare la posizione degli oggetti od il loro uso alle tue capacità di movimento – è anche quello di convincere cose e persone a venirti in aiuto.

Gli infermieri li ho trovati particolarmente solleciti, ma la loro disponibilità diminuisce via via che il paziente migliora e può fare più cose da solo – è normale: anche i genitori si devono comportare così con i figli, cioè aiutarli in quello che non possono, ma incoraggiarli a fare sempre di più da soli.

Un particolare ringraziamento merita il mio letto d’ospedale motorizzato, che vale tutto il denaro che costa – mi alza e mi abbassa a seconda dei miei bisogni, e mi consente di stare per un po’ di minuti al giorno semisdraiato – il tempo che basta per mangiare senza fare il “violinista”.

Meno ringraziamenti merita il sistema di gestione dei pasti: la cucina dell’ospedale è ottima, ma alcune volte il software che raccoglieva le ordinazioni ha fatto recapitare ai pazienti il cibo che non avevano chiesto, o peggio ancora non giovava alla loro salute.

Lo smartphone mi è stato di grande aiuto: posso usarlo anche sdraiato, e rimanere in contatto con il mondo (e purtroppo anche con i fascisti di colore verde o nero); il computer ho dovuto iniziare ad usarlo, quando la terapia era già alquanto progredita, per tenere i conti di casa e scrivere articoli come questo. Poiché non posso ancora stare semisdraiato più di pochi minuti per volta (ad onta del busto C35), devo mettermi prono (a pancia in giù), mettendo il cuscino sotto la pancia, per sostenere la spina dorsale ed impedirle di piegarsi dolorosamente (e pericolosamente). Con questo sistema posso scrivere per più di un’ora – finché non scappa la pipì, e devo girarmi per usare il pappagallo.

Non sembra, ma anche l’uso del pappagallo richiede abilità a chi vive in orizzontale – non scendo in particolari, ma almeno un paio di volte si sbaglia mira.

La padella è una cosa complicata: nei primi tempi non la si può usare perché impone di piegare almeno un po’ la schiena per alzare il sedere, e finché la cura non è progredita non si riesce proprio; dopo diventa possibile un compromesso tra le proprie esigenze (il pannolone è più comodo) e quelle degli infermieri (che trovano più pratica la padella).

Una cosa difficile è la gestione dei rifiuti: alla fine gli infermieri mi hanno appeso al tavolino un sacco nero in cui gettarli, altrimenti ogni volta che venivano nella stanza chiedevo loro di buttarli via – e non sempre mi potevano accontentare subito: l’infermiere che infila le flebo non può toccare rifiuti per non rischiare di infettare il paziente, e la vita di un infermiere od OSS (Operatore Socio-Sanitario) è un continuo cambio di guanti per non trasmettere infezioni.

I rapporti sociali vengono alquanto influenzati dal ricovero: non essendo la spondilodiscite malattia contagiosa, si viene ricoverati in una stanza insieme con altri pazienti; da autistico lo apprezzerei poco, ma vedo che tra pazienti si riesce a fraternizzare (è quasi come fare la guerra insieme), e ad aiutarsi ed incoraggiarsi a vicenda, quindi lo considero positivo. In un reparto di “Malattie Infettive e Tropicali” (il mio) vengono spesso ricoverate persone straniere, e si ha l’occasione di praticare tutto il proprio antirazzismo.

Sono venuti a trovarmi parenti ed amici, e soprattutto mia moglie, che viene da me quasi tutti i giorni; è una mostruosa fortuna che molti pazienti non hanno, anche se sono sposati – spiace dirlo, ma ci sono crisi coniugali in cui il coniuge sano non va a trovare quello ricoverato.

Sarebbe opportuno fondare un’associazione vittime della spondilodiscite, anche per sensibilizzare i medici, che spesso scambiano la malattia per una banale lombalgia – e finché il paziente viene trattato in modo sbagliato, il batterio devasta la colonna vertebrale.

Io sono stato diagnosticato dopo 18 giorni, il mio amico con tre vertebre infette dopo due mesi – tutti e due dopo ripetute visite al Pronto Soccorso, ed una parte della colpa ce l’ha il divieto vigente in Veneto di usare l’RMN per prestazioni d’urgenza. Per una diagnosi sicura infatti occorre usare l’RMN con contrasto, ed eseguire delle emoculture – ma se un Pronto Soccorso mi fa radiografia, ecografia, TAC con contrasto volta ad escludere aneurismi (e non anomalie vertebrali), e nient’altro, non può individuare la spondilodiscite! Ci vuole qualcosa che svegli medici distratti e politici tirchi.

La grande assente in questo ricovero è la mia gatta Minerva: l’ospedale lascia entrare solo i cani guida per ciechi, e non è che Minerva stia zitta se viene nascosta in una borsa. Per cui devo farmi raccontare come se la cava in casa, farmi inviare ogni tanto delle foto, e sperare che dopo almeno un mese e mezzo di ospedalizzazione lei mi riconosca quando tornerò a casa, come fece Argo con Ulisse (Odissea libro XVII, versi 290-329).

 

 

Raffaele Yona Ladu
Ebreo umanista gendervague
Socio di Autistic Self-Advocacy Network
©2019 Il Grande Colibrì

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