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Eccomi qua, di nuovo in piena notte a non dormire, preda dell’insonnia per questo periodo di tempo che lascia molto spazio al rimuginare. Volendo essere sincero, come sempre, posso dire che la prima settimana di quarantena sia stata una benedizione, da introverso e amante del rispetto degli spazi personali, mi sembrava di essere approdato in una sorta di Paradiso ideale. Poi il virus ha presentato il suo conto ed è cominciato l’Inferno. La verità è che, mai come durante la seconda settimana di isolamento, ho capito che l’avrei affrontato da solo.

Per un lungo periodo, questo pensiero è stato snervante, una pandemia avrebbe richiesto presenza, affetto, calore, costanza, almeno per quel che riguarda i miei bisogni personali, invece è risultata un deserto. Le persone che avrei veramente voluto attorno erano vincolate dai dpcm a stare lontane, mentre quelle con cui non avrei voluto condividere tempi e frustrazioni forzati dovevano invece necessariamente essere recluse in casa con me, a norma di legge. Non è stato semplice.

Tuttavia, quando ho mosso il primo passo in questa emergenza sanitaria non ero lo stesso che sono adesso. La pandemia mi ha preso per il collo, centrifugato, risputato e schiacciato la faccia contro me stesso e i miei demoni, costringendomi ad un aut aut forzato che avrei preferito rimandare, che non ero pronto ad affrontare – chi è pronto per un’epidemia globale improvvisa? – ma che è stato la mia benedizione.

Quando ero più giovane, una tensione inspiegabile mi attirava verso le figure di Biagio, in Lilli e il Vagabondo, e di Roux, in Chocolat. Mi chiamavano, strappandomi allo stesso tempo un forte e sonoro dissenso, le giudicavo, eppure le bramavo contemporaneamente. Alla fine, ho capito che proiettavo su di esse un diniego che era verso me stesso, l’incapacità di accettare la paura di vivere per chi sono, di cavalcarla tanto da farmi mio. Suona strano?
Davvero, non scherzo.

Questa pandemia mi ha finalmente fatto comprendere alcune, fondamentali cose. Prima di tutto, è nella solitudine che riesco a trovare me stesso, ed al contempo capisco che amo la compagnia di persone per me di qualità e che la desidero; non sarebbe la stessa cosa, senza. Io amo profondamente il contatto, l’interazione profonda, lo scambio intimo e, allo stesso tempo, mi piace anche starmene con me.

La seconda è che la paura è il miglior motore di ricerca del coraggio, il coraggio di dire basta, di guardarmi allo specchio ed accettare veramente forse per la prima volta l’essere me, e di paura ne ho avuta parecchia, in queste settimane.

La terza cosa che ho compreso è che non stavo vivendo, erano le aspettative e le pretese degli altri, e gli standard normativi, a farlo ancora una volta per me, a manovrare i miei passi, ma per quanto impegno potrei metterci a recitare una parte assegnata, i ruoli culturali preconfezionati non fanno per me.

La verità è che, in questa quarantena, ho preso tutte le etichette che conoscevo e le ho gettate alle ortiche. E mi sono sentito libero, nella mia solitudine, e mi è piaciuto, oh se mi è piaciuto. È stata come una scarica di improvvisa consapevolezza profonda: di punto in bianco, non c’era più un piano prestabilito da seguire per forza, che fosse monogamo, non-monogamo, nessuno dei due, poco importava. Mancava un pensiero, fondamentale ed imprescindibile: io sono io, tu sei tu.

Come posso sapere, aprioristicamente, che tipologia di relazione preconfezionata funzionerà fra me e te?

Siamo due persone, diverse e a sé stanti, l’alchimia funziona se ci sono miscibilità e compatibilità, che posso vedere solo di volta in volta, non certo a priori e seguendo delle determinate regole precostituite, pensate in modo generale e non osservate sulla base di una reale, concreta interazione.
Penso che l’amore sia un nebuloso, espansivo campo sperimentale e che la sperimentazione, in quanto tale, detti le proprie regole nel momento in cui compie quel passo dal teorico al reale, quando ci si sposta all’azione sul campo. In poche parole, la relazione che potrei avere con te è unica ed irripetibile e, pertanto, va pensata e strutturata o reinventata come viene, insieme, perché sia bene per entramb*, e portata avanti finché genera benessere ed è funzionale.

Se posso garantire che sia normativa, o standardizzata?
No.

Illuderei, se dicessi di potermi sposare, avere figli, diventare due cuori e una capanna, pranzi dai parenti e robe varie. Non fa per me e non mi interessa.

Significa che non sia serio ed affidabile?

Affatto.

Se non percepisco costanza e impegno nell’interazione con un’altra persona, da parte mia come da parte sua, l’idea di una continuità nel tempo, qualcosa di duraturo da poter coltivare ad alimentare, il mio interesse per essa scema nel giro di un attimo. Fra l’assoluta precarietà e il mettermi un anello al dito, recludendomi in uno spazio etichettato, preconfezionato, nel quale ci si aspettano e pretendono da me determinate performance, ci passa di mezzo il mondo, con tutte le persone che vi abitano, e le infinite sfumature che esse hanno e tinte di colori con le quali potremmo dipingerci insieme.

Quello che ho capito è che non sono fatto per le tradizioni, nemmeno per i vincoli burocratici, e sicuramente non sarei in grado di essere una relazione primaria standardizzata per qualcuno; eppure l’idea di convivere con una o più persone che affettivamente mi risuonino, che io ami e che mi amino e con cui magari ci sia anche del buon sesso mi piace, mi piace pensare che la casa potrebbe essere un porto sicuro da cui salpare e a cui ritornare quando ci viene voglia di farlo, un punto fermo, un faro di riferimento. Potremmo essere in più di due? Certo. Potrei avere più porti sicuri fra cui navigare? Senza ombra di dubbio.

Quello che mi piaceva, e mi attirava, di Biagio e di Roux, era che non avessero una sola e fissa dimora, ma fossero liberi di esistere e di continuare a scoprire: Biagio era di casa fra diverse persone che gli volevano bene, in base al giorno della settimana, e Roux spostava essa stessa, itinerante lungo il fiume, portando con sé la propria idea di famiglia. In qualche modo, la parte più profonda di me sa che la mia felicità è lì da qualche parte, un po’ vagabonda e un po’ gitana, a modo suo affidabile, seria, costante, presente, disponibile. Certo non posso dire che mi fermerei come Biagio a metter su famiglia con Lilli, pure nei quartieri alti: questo non fa per me e non rientra nei miei interessi, ma cogenitore di figli altrui, o padre single, o membro itinerante di un nucleo familiare che già di per sé è abituato a viaggiare, come Roux, questo potrebbe pure essere.

La verità è che io, a monte, non lo so dire, perché per la prima volta ho capito veramente, profondamente, che cosa significhi l’anarchia relazionale: se e cosa succederà fra di noi, e come andrà avanti, lo possiamo vedere solo quando, trovandoci potenzialmente interessanti, inizieremo a frequentarci, parleremo fra di noi dei nostri valori e dei nostri bisogni, cercheremo un modo per realizzare quelli di tutti e li vivremo per come si manifestano nella nostra irripetibile unicità, lasciandoci andare senza trattenerci forzatamente, qualora non dovessimo trovare un modo per miscelarci. Il resto sono standard, aspettative e pretese aprioristiche, contenitori preconfezionati e, sinceramente, ne sono ormai stanco da tempo, mi fanno sentire costretto, snaturato e mi generano ansia e frustrazione. L’unica certezza che posso darti, prima ancora di scoprire che esistiamo ed arrivare a conoscerci, è che il mio cuore è diviso in quattro per amare più persone e che se mi chiedi esclusiva, mi dispiace, ma le catene non fanno per me.

 

Bleen

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