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Ci sono sbagli che non ti perdonerai, o almeno ti convinci che sarà così. Poi chissà, nella vita non si può mai sapere.

A volte penso sia stato uno sbaglio, altre volte mi dico che se fosse andata meglio non lo sarebbe stato. Ma come faceva a saperlo, la me ventenne che aveva messo gli occhi sulla ragazza sbagliata? Ed è assurdo quanto ancora oggi, mi senta in colpa a scrivere “ragazza sbagliata” come se lei non avesse fatto niente di male, come se io dovessi ancora difenderla. Come è strana la mente, ci sono cose che hanno bisogno di tempo per essere completamente metabolizzate, guardate a freddo, analizzate con occhi diversi. Ero solo una ingenua ventenne, sì, ingenua, che voleva finalmente vivere la sua omosessualità con semplicità, spensieratezza, ma soprattutto avere le esperienze che i miei amici avevano avuto fin dalla loro adolescenza. Mi piaceva lei e pian piano cominciò la nostra storia. Una storia triste però, un legame fin da subito stranamente instabile e assurdo. I suoi comportamenti…no, non trovo un aggettivo. Ora dovrei ricominciare, come faccio sempre, con il dire “però lei aveva una vita difficilissima, però era sola, ma lei, ma lei, ma lei…” come a giustificare i suoi atteggiamenti. Allora non lo farò, eppure l’ho rifatto, l’ho appena fatto!

Nella mia testa ancora la devo giustificare, nonostante mi venga ripetuto di non farlo, la mia mente ancora non accetta di non giustificarla. E ho capito che non posso farmene una colpa, il tempo aiuterà. Quindi, lei mi piaceva ed iniziammo la nostra storia durata quasi 6 anni. Una storia in cui da giovani ventenni tra i primi passi all’università diventammo donne con un lavoro e una mezza convivenza. Ma fin da quei primi momenti universitari, che dovrebbero in genere essere un’esperienza meravigliosa, mi chiusi in me e provai sulla mia pelle cose sconosciute. Eppure abbiamo fatto tante esperienze insieme, vacanze, permanenze di studio all’estero, momenti intensi e stretti, intimi, ed è questo che mi lascia l’amaro in bocca. Che i presupposti per lasciare un bel ricordo c’erano, ma c’era anche del marcio e penso ormai di averlo accettato o forse assolutamente no. Assurdo, nemmeno lo capisco. Tutto partì da una luce lasciata accesa in casa, ricordo ancora la sua corsa verso di me e il suo viso, arrabbiato come quello di un diavolo, a dirmi che non avrei dovuto farlo più.

Poi la caffettiera messa sul fuoco in una posizione sbagliata, poi i miei modi di fare, il latte troppo caldo, poi lo sport, poi la mia presenza richiesta senza sosta, io che andavo a casa sua e rimanevamo tra 4 mura gelide, sempre e solo noi due perché non aveva amici.

Poi la gelosia, i morsi, le botte in testa e sul seno, le urla in faccia fino a farmi vomitare, le minacce, l’augurarmi una brutta fine, gli oggetti lanciati contro. Un giorno un pugno mi arrivò direttamente sulla cassa toracica e smisi di respirare, me ne andai a piedi nudi, su di un marciapiede gelato, in una notte d’inverno.

E tutte le volte che succedeva ero intrappolata in casa, tutte le volte non sapevo come uscirne e la trappola oltre che fisica diventa poi mentale. Realmente non c’è, ma nel cervello si materializza eccome. E piangevo, e a volte le dicevo “non mi tirare“, “ti prego mi fai male“, “no, non mi avvicino perché ho paura” e chiamavo mamma dentro di me, incredula che tutto quello stesse davvero succedendo a me. E poi, come nulla fosse, si ricominciava da capo, il giorno dopo o addirittura la notte stessa. Ah! Quanta fatica nascondere in casa mia cosa stavo passando, quanta fatica nasconderlo a molti altri ed inventare bugie sulle ferite. Un giorno un dottore voleva chiamare il telefono rosa, convinto che avessi ricevuto delle botte da un uomo. Risposi che no, erano solo pallonate durante l’allenamento di calcio. Ancora oggi mi chiedo come io abbia fatto a resistere tutti quegli anni, ma ancora oggi non riesco a non farmene una colpa. Nonostante io sappia che da parte mia ci sono stati sbagli, sebbene ci siano in tutte le coppie e che non dovrebbero giustificare e portare ad atteggiamenti simili da parte dell’altra persona, io ancora oggi penso che forse un po’ di colpa ce l’ho avuta. Mi spiego meglio: non sarò io ad averla portata ad avere certi comportamenti? Ecco, questa domanda me la ripeto spesso, eppure so che i suoi modi di fare facevano (notare il passato speranzoso) parte di lei, che aveva questi atteggiamenti non solo con me e li aveva avuti anche in passato, prima di conoscermi. Nonostante il nostro rapporto sia oggi molto tranquillo, come se queste cose non fossero mai esistite, di tutto questo non abbiamo mai parlato. Ebbene, dalla mia ignoranza di ragazza piena di sogni e aspettative, non mi sarei mai immaginata di vivere una situazione simile in una relazione tra due donne. Sono lesbica, e la violenza di coppia, pensavo, ovviamente ingenuamente ma parlo con la testa di una ragazza ventenne e un po’ tra le nuvole, di poterla scampare.

Lo so, lo so che possono sembrare assurde le colpe che mi do, i dubbi che mi martellano in testa. Ma credetemi è difficile, è difficile accettare.

Non ho mai pensato di chiedere aiuto, di vivere in una relazione violenta veramente, di usare la parola violenza, di vederla come un’abuser. Sì, sapevo cosa stavo vivendo, ma la colpa che mi davo e le giustificazioni, smontavano tutto questo. E ancora mi do la colpa, forse inconsapevolmente perché se ci penso realizzo, forse è solo un modo per non lasciarmi in testa un’immagine negativa di lei. C’è un muro, c’è un muro che non riesco a buttare giù. È come se volessi lasciare le cose così come stanno, ormai divise, ormai ognuna per la sua strada, che senso ha starne a riparlare? Che senso ha farle del male se tanto non dobbiamo più stare insieme? Nascondiamo la polvere sotto al tappeto e fine della storia, chi altro lo verrà mai a sapere?

Non ne ho bisogno, no? Poi però mi domando perché, dopo ormai tre anni dalla fine della relazione, io ci sto ancora a pensare. La cassetta della nostra vita insieme mi gira in testa in loop, vedo la bobina che va all’impazzata, dispiega il nastro magnetico con frenetiche immagini di noi, poi lo riavvolge e lo ripresenta senza sosta, ancora e ancora. È stato intenso questo viaggio con lei, è stato una spugna imbevuta fino allo stremo, marcia d’acqua, ancora tutta lì, forse in attesa di essere strizzata. Spero presto.

Se ancora i miei pensieri vanno lì, forse c’è bisogno di parlarne. E mi vergogno tremendamente quando ci penso. A volte ci rido e mi dico: ma va’, quanto esageri, stai ingigantendo le cose, dai troppo peso!

E invece no, mi devo sradicare da quel pezzo di vita, devo recidere queste radici avvinghiate nel terreno della nostra storia. Giorni fa ho seguito diversi interventi di attivst@ che parlavano di violenza nelle coppie LGBTQIA.

Sì, esiste la violenza in una coppia di due donne. È marginalizzata però, è stigmatizzata, perché non c’è l’uomo. Una volta fuori da tutto, ho raccontato a poche persone quello che mi è successo, ma l’ho raccontato anche quando succedeva, poche volte, magari velatamente, ma l’ho fatto. E penso: perché nessuno mi ha mai presa da una parte dicendomi “parliamone! Non devi stare con lei!“? Lo so, lo so che ci si salva da soli, e non è la prima volta che lo faccio nella vita. Lo so che da queste cose se ne esce solo quando il cervello capisce che la gabbia realmente non c’è. Ma cristo santo! Nessuno ne capiva la gravità? E mi domando, se dall’altra parte ci fosse stato un uomo, si sarebbero mossi? Sarebbe andata diversamente? Quando andai dal dottore ed inventai la scusa delle pallonate, era una richiesta di aiuto. Taciuta. Purtroppo non potevano leggermi nella mente. Anche se l’avrei tanto voluto, diamine quanto l’avrei voluto. Mi è successo, devo prenderne consapevolezza. Continuiamo a parlarne. Non siete sol@.

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