Skip to main content

Le questioni legate al corpo, e in particolare a quello femminile, sono qualcosa che mi ha sempre profondamente affascinato e incuriosito.

In parte, ritengo che questo mio profondo interesse derivi dall’amore che in fin dei conti ho sempre saputo di provare per le donne.

Dall’altra, non posso fare a meno di notare che esso sia intrinsecamente collegato alla mia storia personale.

Pur non ritenendo e non volendo appartenere a un genere definito, non posso fare a meno di notare che il mio corpo viene osservato e percepito da molti come quello di una ragazza.

L’effetto è spesso causa di malessere e di un certo straniamento, ma diventa anche un’occasione per riflettere e per porsi numerose domande.

Alcune, non tutte, sono state raccolte in questo scritto.

A offrire loro una risposta ci sarà ancora una volta Gianluca Evangelista, studente di Psicologia Clinico-Dinamica presso l’Università degli Studi di Padova che con la consueta gentilezza e sensibilità ha accettato di aiutarmi a stilare questo nuovo articolo.

 

Gianluca, il corpo femminile è sempre stato al centro di un acceso dibattito all’interno della società italiana. Da un lato lo si vorrebbe esibito, mostrato, scoperto, esposto. Dall’altro si tenta di nasconderlo, lo si umilia, lo si fa oggetto di critiche, di commenti spietati e di curiosità morbose.

Da che cosa nasce, a tuo parere, questa forma di pensiero così contraddittoria e giudicante e quali effetti può avere sulla salute psicofisica delle persone che lo subiscono?

La contraddizione di cui parli può essere intesa come un punto del processo storico a cui siamo arrivati nella società attuale, frutto di numerose “voci” e concezioni che hanno interagito nei secoli. La sottomissione del corpo femminile ha radici antichissime che affondano nel mondo greco antico.

In esso, il corpo dell’uomo e il corpo della donna erano considerati fisiologicamente identici, se non che la donna presentava gli stessi caratteri dell’uomo in una versione però “meno perfetta”.

Un esempio perfetto, in questo senso, ci arriva dal linguaggio: come spiega Thomas Laquer nel saggio L’identità sessuale dai greci a Freud, in greco antico si usava infatti lo stesso termine, kaulos, per parlare del pene ma anche del clitoride.

Come se non bastasse, il corpo femminile veniva considerato come la “materia” che permetteva all’uomo di effettuare il processo di fecondazione e questo legame di subordinazione con la parte maschile della pòlis si è protratto nei secoli successivi instaurando un effettivo rapporto di possesso.

Le ondate femministe del ‘700, che videro schierate in prima linea personalità del calibro di Mary Wollstonecraft e Olympe de Gouges, e quelle del successivo ‘900 hanno tentato di liberare il soggetto “donna” da questo possesso e la rivendicazione dei diritti delle donne è andata di pari passo con una graduale liberazione del corpo.

Questo processo non ha tuttavia impedito di rendere quel corpo ancora più “disciplinato” e “controllato” dalla società.

Se vogliamo guardare ai giorni nostri, e allo specifico tipo di società in cui viviamo, possiamo dire che esiste sicuramente una maggiore libertà nel disporre del proprio corpo.

Al contempo, però, non possiamo fare a meno di notare che la risposta sociale (quella data dalla famiglia e dai vecchi e nuovi media) conferma che alcune frange della comunità osservano il corpo secondo un’ottica refrattaria alle nuove possibilità di costruirlo e di esibirlo.

Si tratta dunque di  modi diversi di “narrare” il corpo nel mondo odierno.

Per quanto riguarda gli effetti di una critica e/o di un giudizio morale inferti all’esposizione del corpo femminile, ti posso dire che essi possono essere estremamente numerosi e variegati.

La letteratura psicologica non è stata prolifica in materia e ha prodotto saggi scritti quasi esclusivamente per parlare dello specifico fenomeno del body shaming.

In questo caso particolare, si sono osservati comportamenti che spaziano da un controllo rigido della dieta fino ad azioni autolesive.

Anche in questo caso, il quadro è comunque molto vario e sfaccettato: per una comprensione ampia e approfondita del fenomeno consiglio la lettura di Body Image and Body Shaming di Meghan Green e Ronald Lankford.

 

     Ritieni che i mezzi di comunicazione di massa abbiano avuto un ruolo nella costruzione e nella riproposizione di un certo modello di femminilità?

Oppure sarebbe più corretto dire che la televisione, i giornali e i social network si siano solo limitati a fare da amplificatore a un concetto di bellezza basato su elementi sempre identici, se non stereotipati?

 

In quanto elementi che costituiscono una parte attiva del funzionamento della società post-moderna, i media rivestono un ruolo fondamentale nel creare e nel riprodurre i discorsi sulla “femminilità”.

Come ben spiega lo studioso Philip Vannini, tutti noi costruiamo il nostro corpo in rapporto a come ci aspettiamo possa essere osservato nella società e questo “sguardo” è plasmato anche da quanto ci viene riproposto in forma mediatica.

I social network, le televisioni, i giornali… tutti questi elementi sono in costante interazione con il nostro modo di costruire il corpo, così come con il nostro modo di costruire la femminilità.

Spesso sentiamo parlare di bellezza come di un concetto che si è evoluto nel tempo e non è mai rimasto oggettivamente statico.

Probabilmente in una società “veloce” come la nostra (o liquida, come la definirebbe Zygmunt Bauman) i cambiamenti di ciò che viene assimilato all’idea di “bellezza” viaggiano a una velocità ancora più alta, ma ricordiamoci che a questo processo prendiamo parte tutti noi,  come “attori sociali” dei rapporti in cui siamo quotidianamente inseriti.

 

Il body shaming sembra essere diventato – soprattutto in questi ultimi anni – un’arma efficacissima per colpire e deumanizzare il “nemico” di turno, specie se quest’ultimo è di sesso femminile. La carrellata di insulti che hanno colpito la scrittrice Michela Murgia sono in questo senso spaventosamente indicativi, e altrettanto lo sono quelli che hanno investito la giornalista Giovanna Botteri, accusata da più parte di non aver abbastanza cura di se stessa e sbeffeggiata anche in un servizio del tg satirico Striscia la notizia.

Quali sono, a tuo avviso, le motivazioni che spingono le persone a utilizzare toni così aggressivi e violenti nei confronti di altri individui, e perché le donne sembrano essere le più colpite da questo odioso fenomeno?

 

Nell’osservare questi esempi specifici mi viene in mente un aspetto della definizione di “Genere” che ci fornisce la storica femminista Joan Scott.

Nel suo saggio Il “genere”, un’utile categoria di analisi storica, Scott parla di «simboli culturalmente accessibili che evocano molteplici rappresentazioni» e cita Eva e Maria come simboli della femminilità nella tradizione cristiana.

Al contempo, la studiosa si chiede anche «quali rappresentazioni simboliche sono richiamate, come e in quali contesti?» dalle due figure.

Tornando al senso comune (di cui tutti noi facciamo parte), credo che quando sentiamo dire “scrofa”, “cesso ambulante”, “scaldabagno con le gambe” (mi rifaccio al primo dei due esempi citati) dovremmo chiederci che rappresentazione della donna consente di arrivare a produrre questi discorsi, qual è l’insieme di simboli culturali che fornisce ai “body shamer” le parole, la grammatica, con cui arrivare ad insultare una donna.

Questo ci permetterebbe di chiarire come simili discorsi sottintendano l’ammissibilità di certi corpi piuttosto che di altri, in quanto maggiormente coerenti con la costruzione socio-culturale di riferimento.

È questo, a mio modesto parere, un esercizio che ci consente di restituire valore alla complessità, alla molteplicità, alla variabilità delle forme con cui rappresentare i generi, i corpi, le identità, in un’ottica di promozione della salute all’interno della società.

 

In La nuova colonia, uno dei capolavori della drammaturgia pirandelliana, compare e trova spazio un personaggio davvero interessante e discusso, La Spera. Ex prostituta e donna in cerca di redenzione, nell’ultima parte del mito arriva ad annientare fisicamente gli uomini che intorno a lei minacciano di strapparle il figlioletto dalle braccia.

Credi che la sua figura possa in qualche modo ricollegarsi al topos della femminilità feroce e spaventosa per cui l’umanità intera, sotto sotto, prova grande timore e paura?

Sarebbe interessante poter interrogare Pirandello in merito a questo punto per conoscere la sua personale interpretazione del racconto.

La relazione femminilità-natura è stata esplorata in modo approfondito da numerose filosofe femministe.

Carolyn Merchant, ad esempio, ha evidenziato un parallelismo molto interessante tra la dominazione maschile sul mondo femminile e la dominazione dell’Uomo sulla Natura.

E’ un tema che personalmente trovo davvero interessante, in quanto pone le basi per la filosofia post-umanista e post-antropocentrista.

Questi movimenti sono caratterizzati in primo luogo dalla critica all’idea stessa di “umano” inteso come maschio, bianco ed europeo perfettamente rappresentato dall’uomo vitruviano di Leonardo.

Superando la nozione di umano per come ci è stata tramandata sin qui si può arrivare a rimuovere anche dualismi quali uomo-donna che non si limitano a stabilire due uniche realtà, ma a destituire la validità di una rispetto all’altra.

Per quanto sia difficile stabilire se vi sia una sorta di “timore inconsapevole” dell’uomo rispetto alla femminilità, trovo personalmente molto efficace rappresentare la lotta femminista con quella ambientalista.

Associare le due tematiche come parte di un più ampio movimento filosofico/attivista finalizzato alla promozione della salute della specie (e a un suo sviluppo sociale) potrebbe davvero tornare molto utile.

 

Uno dei ricordi più vividi dei miei anni di catechismo è sicuramente collegato alla visione che – almeno secondo i miei educatori dell’epoca – la chiesa cattolica avrebbe nei confronti del corpo femminile e della sessualità, che spesso mi veniva presentata come qualcosa di peccaminoso.

La stessa idea di modificare il proprio essere, anche e soprattutto dal punto di vista fisico, sarebbe secondo certi membri della chiesa quanto di più sbagliato possa esserci, tanto che i tatuaggi che io stess@ porto addosso sarebbero da considerarsi una forma di consacrazione satanica.

In che modo, a tuo parere, la religione può essere utilizzata – e strumentalizzata – per operare un controllo sugli individui, specie se di sesso femminile?

Una possibile strumentalizzazione della religione può essere fatta a livello dei testi sacri: citando l’esempio dell’Antico e Nuovo Testamento, numerosi versetti sono stati interpretati come una legittimazione a relegare la donna ad un ruolo inferiore o per sostenere la suddivisione binaria in due generi, fondata sulla contrapposizione gerarchica tra uomo e donna.

Nel Nuovo Testamento, ad esempio, si può leggere:

“La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione.

Non concedo a nessuna donna d’insegnare né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva, e non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” [Prima lettera a Timoteo].

Gli esempi in questo senso si sprecano, specialmente per quanto concerne il libro della Genesi, tuttavia sarebbe quantomeno ingenuo attribuire alla religione una connotazione necessariamente negativa.

Il tema della mortificazione femminile è, come hai precisamente sottolineato, una questione strumentale, e si lega all’uso che gli individui fanno della spiritualità e delle scritture.

Volgendo lo sguardo alla questione islamica, di particolare interesse in Italia proprio in queste settimane, ci terrei a riproporre l’insegnamento che lo studioso Giuseppe Mantovani offre in merito al giudizio prodotto sul vestiario adottato dalle donne musulmane.

Nella narrazione “comune” il velo (sia esso hijab, niqab o burqa) viene spesso visto e ritenuto un mero «simbolo del controllo della sessualità della donna».

Come ricorda Mantovani, però, la questione è però molto più articolata e complessa e andrebbe trattata cercando di abbandonare le proprie lenti da individui europei cresciuti in un particolare contesto socio-culturale.

Non farlo significherebbe – anzi, significa – togliere rilevanza al modo in cui le donne stesse vivono la propria appartenenza al nucleo sociale e familiare di provenienza, quello islamico in questo caso.

Dico questo per cercare di abbattere lo stereotipo secondo cui vi siano religioni  “più opprimenti di altre”, indipendentemente da quanto sia possibile leggere nelle rispettive sacre scritture.

 

 

Nicole Zaramella

 

 

 

Leave a Reply