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Nicki:  Ti è mai capitato di sentirti un po’ confuso? Di fare una scelta e poi di pentirtene, o meglio di rifletterci sopra e di non sapere bene cosa pensare di te stesso e delle tue decisioni? A me sì, abbastanza spesso. Faccio una cosa e poi ci ripenso. Mi chiedo se forse non avrei potuto comportarmi diversamente, e mi domando se forse non ho un po’ esagerato. Mi è successo molto di recente quando, complice la vanità e la voglia di mostrarmi senza troppi pudori, ho postato alcune foto un po’ spinte sul mio profilo Instagram e quasi subito ho potuto constatare quanto le reazioni del “pubblico” potessero essere varie. Ho ottenuto like e complimenti, oltre che alcuni messaggi privati dai contenuti piuttosto espliciti. Nessun dramma, per carità. In fin dei conti me l’aspettavo. Quello che invece non mi aspettavo per niente, o che forse non volevo immaginare, era che qualcun@ mi accusasse più o meno velatamente di essere un esibizionista e di voler fare un po’ troppo il gradasso. “Lo dico per il tuo bene! Lo dico per proteggerti! Non voglio che agli occhi della gente tu passi da puttana!”.

Inutile provare a spiegare che quelle immagini così allegre e sexy sono in verità il frutto, anzi il premio per le mie battaglie contro l’autolesionismo, la cronica mancanza di fiducia in me stesso e i disturbi alimentari che mi hanno perseguitato per anni.

Inutile provare a mettere in evidenza le ragioni che mi hanno spinto a mostrarmi con gioia e – finalmente – con un po’ d’amore e rispetto per me stesso e per la pelle in cui abito. Inutile, completamente inutile se dall’altra parte non ti si vuol ascoltare.

È una situazione strana e spiacevole, quella che viene a crearsi, lo ammetto.

Una situazione di cui, se non ricordo male, tu stesso hai fatto esperienza giusto pochissimo tempo fa…

 

Stefano: Proprio così, Nicki. I giudizi e gli insulti rivolti, ahimè, alle donne che mostrano il proprio corpo e vivono liberamente la propria sessualità, fuori dall’estetica e dalla morale maschiliste, toccano anche gli uomini,  gay e etero. Fino allo scorso agosto, lo slut-shaming  per me era un argomento di cui leggevo sui post di Twitter o nelle stories di Instagram. Poi una sera, per gioco e ispirato dal nuovo singolo di Cardi B, W.A.P, decisi di farmi un paio di selfie, quasi nudo e in pose provocanti, davanti allo specchio di casa mia. Le pubblicai su Twitter e, dopo alcuni minuti, iniziai a ricevere dei messaggi privati, oltre ad un discreto numero di like. I miei quindici minuti di fama li ho avuti e, chiamami superficiale, ma non mi sono dispiaciuti per niente. L’unica perplessità venne da un ragazzo che conobbi sui social anni fa e con il quale ho un rapporto, per così dire, di amicizia virtuale. Pur apprezzando il lato provocante delle foto, mi chiese se non temevo le reazioni del mio datore di lavoro (!?) qualora vedesse quei selfie, in particolar modo quella in cui mettevo in bella mostra il mio lato B. Gli risposi di no.  Eppure, qualcosa nella sua domanda…

 

Nicki: … faceva percepire un’accusa nemmeno troppo velata. Lo so, ti capisco. Anche a me è capitato di ricevere questo di tipo di ammonimenti. Da quando ho cominciato a postare foto di (semi) nudo mi sono sentito chiedere come mai lo facessi, se lo ritenessi giusto, se mi sembrasse naturale. In molti casi i commenti e i consigli erano corredati da un paternalistico “lo dico per il tuo bene…!”. A posteriori, mi domando con reale curiosità che cosa si intenda per “bene” e soprattutto chi possa decidere cosa sia davvero giusto o totalmente sbagliato…

 

Stefano: Credo che dietro a quel “lo dico per il tuo bene” si celi la paura della sessualità propria e altrui. Come te, Nicki, anch’io, dopo aver risposto al ragazzo che non mi preoccupa la reazione del mio datore di lavoro, aggiunsi qualcosa che suonò come una scusa, o un’ammissione di colpa. “Sei stato un po’ irresponsabile”, mi dissi.

Ad ogni modo, per me la storia era finita lì. Non per lui, evidentemente. Un mese dopo mi disse che, a suo parere, io non sarei una persona mentalmente lucida, e tra i motivi su cui ha basato la sua perizia psichiatrica, c’era anche quella foto “con il buco di culo di fuori”. “Non è un atteggiamento da persona sana”, sentenziò aspramente.

Hai presente lo stato di shock che si prova quando ti ritrovi per terra, dopo essere inciampato sul marciapiede, mentre camminavi felice con la tua canzone preferita nelle cuffie? Ecco, l’effetto fu quello.

Quando gli chiesi delle spiegazioni, mi rispose che pubblicare certi scatti sui social dimostra uno scollegamento dalla realtà, perché, nel mondo reale (sic!), questo tipo di foto le pubblica chi lavora nel porno. Sentendo che gli avrei fatto notare che quello che stava facendo era un vero e proprio slut-shaming, mise le mani avanti spiegando che lo slut-shaming non esiste perché nella nostra società “ci sono regole di convivenza civile” secondo cui mostrare il fondoschiena in una foto non è normale, a meno che non lo si faccia per mestiere, ossia, nel caso di un uomo gay come me, il pornoattore.

 

Nicki: Mi è capitato spesso di ascoltare affermazioni simili.

Se ti spogli e pubblichi le tue foto sui social, se parli esplicitamente di sessualità, di piacere e di godimento, se mostri più di quanto dovresti mostrare allora stai sbagliando tutto. Non sei normale. Sei sporc@. Hai, appunto, qualcosa che non va.

I nostri corpi, gli stessi con cui andiamo a fare la spesa o con cui guardiamo un film alla televisione, diventano improvvisamente un pericolo nel momento in cui decidiamo di dare loro un altro spazio.

Farci sentire in colpa per la nostra pelle nuda ed esibita non è poi così diverso dal mostrare disprezzo per il suo colore, le sue smagliature, le sue imperfezioni, i suoi nei, brufoli o cicatrici.

Lo slut shaming esiste eccome e, com’è vero questo, è vero anche che esiste il body shaming e più in generale la discriminazione verso tutto ciò che ci appare diverso. Fuori luogo e fuori posto. Per l’appunto, anormale.

Combattere il pregiudizio verso la nudità e l’utilizzo consapevole delle potenzialità del proprio corpo è un’azione che a mio avviso dovrebbe andare di pari passo con gli sforzi per abbattere qualsiasi tipo di discriminazione.

Se vogliamo esistere ed essere davvero e finalmente felici, dobbiamo darci da fare ed essere noi per primi il cambiamento che tanto sogniamo.

 

Stefano: Hai proprio ragione Nicki: i nostri corpi sono gli stessi che lavorano, studiano, consumano ed interagiscono con altri corpi, secondo le consuetudini e le norme stabilite dalla società in cui viviamo. Perché allora non li possiamo mostrare, così come sono, come e quando lo vogliamo noi? Perché, secondo lui e molt@ altr@, il mio corpo nudo lo posso esibire – e sfruttare –  solo in un’industria dove i corpi devono sottostare a dei canoni di bellezza molto rigidi? Perché non lo posso fare per il mio puro piacere, senza desiderare dei soldi in cambio? È quello che mi sono chiesto, il giorno dopo lo sfogo di quel ragazzo. La risposta che mi sono dato, per ora, è che questa è l’ennesima prova di quanto la nostra società sia fondata sul profitto.Un profitto da massimizzare, estratto dallo sfruttamento e  dalla vendita del tuo talento, il tuo sapere e il tuo corpo. Ma attenzione. Nel nostro caso, i nostri corpi, nudi o seminudi, possono essere mostrati al pubblico solo se, da una parte, rispondono a dei canoni estetici fondati sull’idea della “performance fisica” (e non su quella di benessere psicofisico). Dall’altro lato, si vorrebbe ridurre la nostra pelle a un involucro che induca chi ci guarda a pagare per penetrarci ancora più profondamente con lo sguardo (pornografia), con il pene, altre parti del corpo, oppure con oggetti (prostituzione). In poche parole, puoi mostrarti nud@ solo se il tuo corpo nudo genera un guadagno, direttamente o indirettamente, attraverso la promozione di una fisicità associata a un sistema economico basato sul consumo e il profitto.

Inoltre, mi chiedo se – nel mio caso – a suscitare quella critica violenta e gratuita, non siano state anche le pose da “preda”, così poco virili, in cui mi sono presentato in quei selfie. Mi spiego meglio: ho come l’impressione che, se fossi stato una donna, la critica non si sarebbe basata sul ragionamento “puoi mostrare il culo solo se fai il pornodivo gay”, ma su quello secondo cui “questa mostra il culo perché (passami il termine) ha voglia di cazzo, come tutte le donne, quindi, tutto regolare”. È un pensiero che la dice lunga su quanto la rappresentazione di noi stess@ e dell’altr@, e quindi il nostro immaginario erotico, siano plasmati dalla visione erotica patriarcale che distingue tra l’uomo-predatore e la donna-preda. Questa visione non lascia spazio ad altre forme di rappresentazione, sebbene negli ultimi venti anni qualche metro sia stato concesso, o conquistato, sugli schermi dei televisori e degli smartphone.

Per cui, il maschio deve mostrare i muscoli, il lato A, e un appetito sessuale insaziabile e famelico. Guai se, come la femmina, fa vedere il lato B, delle curve, e un’arrendevolezza sessuale da preda, anche solo per gioco.

Un’altra risposta che mi sono dato, dopo aver riletto per la quarta volta il messaggio di quel ragazzo, è che la sessualità delle minoranze sessuali (donne cisgender, persone non-binarie e LGBTQIA) fa ancora paura a coloro che si identificano nella maggioranza fantasticata degli uomini cis-etero, sia perché ne fanno parte, sia perché aspirano, inconsciamente, a farne parte. Questa paura l’ho vista quando lui mi ha detto “Molti degli -shaming esistenti sono semplicemente il modo con cui le minoranze stanno cercando di giustificare qualunque loro comportamento non consono alle regole della società costituita”. A molti uomini etero (o aspiranti tali) fa paura vedere un altro uomo darsi in pasto, come se fosse una preda. A molti maschi etero dà molto fastidio sentire una donna parlare del suo desiderio sessuale, e mostrare il suo corpo, senza l’autorizzazione di un uomo. Basta leggere i commenti sessisti rivolti a Cardi B da molt@, dopo l’uscita del video di W.A.P.  su YouTube, o rileggere quei consigli avvelenati che ti diede quella persona, Nicki.

Prima hai parlato della necessità – urgente, direi – di abbattere sia il pregiudizio sulla nudità che le discriminazioni verso il corpo diverso. Io credo che tale lotta di liberazione dei corpi passi anche dall’abbattimento del sistema economico capitalista. Infatti, se prima non potevamo mostrarci nud@ perché era peccato, adesso non lo possiamo fare a se non per generare un profitto, tramite lo sfruttamento del corpo, oggetto di consumo. Per questo credo che, se vogliamo esprimere liberamente i nostri desideri erotici vivendo felicemente con e nei nostri corpi, di qualsiasi forma e colore essi siano, dovremmo trovare un modo diverso di produrre benessere in comune per tutt@.

 

Nicki: Sono perfettamente d’accordo con te. Dare spazio ai nostri corpi e a quelli altrui è un percorso che va di pari passo con le lotte di equità e di giustizia sociale. Non possiamo pensare di lottare solo per noi stess@.

La nostra battaglia per l’accettazione di noi stess@ deve andare di pari passo con altre conquiste. Le stesse che, mi auguro, renderanno migliore la vita di tant@ altr@.

 

Stefano: Infatti, il progresso per poche persone sarebbe un privilegio. Bisogna quindi immaginare e lottare per una società equa e libera per tutt@. Ce la faremo, Nicki!

 

 

Stefano Duc e Nicole Zaramella

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