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Mi trovo a scrivere con un certo timore e imbarazzo, dopo aver intervistato e ringraziato un gruppo di pazienti, degenti in una casa di cura psichiatrica, che si sono resi disponibili a raccontare e a raccontarsi, non della malattia mentale (che non hanno, nella maggior parte dei casi), ma del loro disagio sociale dilagante che vivono costantemente al di fuori di quel cancello.

Un rifugio dunque (e non solo) la casa di cura? Purtroppo sì. Una tavola dove poter mangiare regolarmente tre pasti al giorno, un letto dove riposare, un calore e un sostegno, soprattutto amicale, oramai precluso in questa società. Un luogo dove si viene accolti, seguiti, ascoltati e curati. Dove si restituisce dignità a coloro che l’hanno perduta.
Negli ambiti sociali meno protetti, il ‘disagio mentale’ conosce una nuova fiorente stagione ed è spesso etichettato come patologia psichica o, peggio ancora, come malattia mentale.
Tra i pazienti della casa di cura la cosa che più mi ha stupito è stata vedere quanto la loro condizione abbia tutti i presupposti per sfociare nel disagio psichico, ma non presenti i sintomi di questa patologia. In questo ambiente si ‘restituisce dignità alle persone’ permettendo loro di dare un contributo attraverso il lavoro, di poter pagare le bollette e senza dover arrivare a fine mese affogati e disperati. Permettiamo alle persone di alimentarsi e mangiare (molti dei pazienti mi hanno detto che non hanno soldi per farlo). Permettiamo alle persone di vivere, non solo di sopravvivere! Consentiamo di dare vita alla Vita…

Ricollegandomi doverosamente alla scuola basagliana, la malattia mentale deve essere necessariamente rivista come specchio e non aporia del vivere sociale.
Le case di cura psichiatriche sono piene di pazienti che non sanno assolutamente dove sbattere la testa. Sono anime sole, non per scelta ovviamente, ma perché oltre a non avere nessuno, non hanno dalla loro neppure lo Stato e il minimo sindacale di benessere che dovrebbe essere loro garantito.

I pazzi o i matti sono davvero tali o sono solo dei disagiati sociali? Sono solo delle persone che si trovano, anche per la prima volta, emarginati da una quotidianità scandita che non si possono più permettere. È il malessere sociale che dobbiamo curare e/o prevenire o il disagio mentale? Entrambi direi, ma partendo sicuramente dal primo.
Una cosa è considerare il ‘problema della follia’ come una crisi transitoria della persona, e un’altra cosa è considerarlo come la sua diagnosi. Inoltre la follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di allontanarla da sè.

Questi pazienti che si sono seduti attorno a me, in un cerchio perfetto, si sono sentiti persone normali… Perché lo sono! Spesso non vengono considerati tali, in primis dalle famiglie che li parcheggiano al pit stop, non per un rifornimento, ma per una bella sosta senza parchimetro. Inoltre, fa comodo a molti smerciare medicine come se fossero coriandoli, curando neppure il sintomo, ma la maschera di esso. Doppio danno!
In quel cerchio di persone ho sentito e vissuto la normalità di un malessere taciuto, silente, ma urlato dentro e che risuonava come un tamburo. Un disagio che percepisco anche fuori, nelle strade, davanti ai negozi, alla fermata dell’autobus, sui marciapiedi, ai semafori, ma la gente sta in silenzio e vive il proprio dolore quotidiano, trovando ogni tanto una terapia non ortodossa come ‘sfogatoio’. Correre, inghiottire, sopportare e poi? Esplodere naturalmente…. Risultati? Uno di questi è il ricovero nel reparto psichiatrico di un ospedale o il ricovero in una casa di cura psichiatrica, spesso vista come una vacanza Valtur per il benessere vissuto. Non ci sono spa e percorsi energizzanti, ma c’è un percorso di vita da costruire.
Si parla tanto, oggi in Italia, di preservare la dignità e la cittadinanza dei folli, quando invece si risponde con la soluzione di un ricovero coatto (T.S.O. trattamento sanitario obbligatorio). Mancano coerenza e comunanza di intenti collettive.

Vorrei concludere citando, e omaggiando naturalmente, Franco Basaglia, che è stato il più importante intellettuale della storia dell’Italia repubblicana. I riferimenti alla scuola di Basaglia derivano dal fatto che credo indispensabile ripercorre e riprendere la sua rivoluzione culturale sulla definizione di malattia mentale. Si tratta di un’autentica rivoluzione nella psichiatria italiana, che restituisce ai malati un ruolo umano e sociale, tramite una continua comunicazione con chi li cura. Egli ebbe il coraggio di applicare un moderno metodo terapeutico consistente nel non considerare più il malato mentale alla stregua di un individuo pericoloso, ma al contrario un essere del quale devono essere sottolineate, anziché represse, le qualità umane. È importante, secondo il grande psichiatra, e anche secondo me che ho vissuto indirettamente la malattia mentale, avvicinarsi alla persona che soffre in un modo estremamente dialettico, che trascenda la semplice figura ‘tecnica’ del medico, con l’attenzione rivolta prevalentemente al malato piuttosto che alla malattia. Il mio interesse verso Basaglia e verso coloro che lo hanno aiutato, va di pari passo con questa storia, che vede dei pazienti catalogati come non-pensanti, non persone ma numeri, categorie psichiatriche, patologie mentali, non storie di esseri umani.

Vi lascio con una citazione sulla quale riflettere.

Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza.

Franca Ongaro Basaglia, 19 settembre 1978.

Dott.ssa Gaia Parenti

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