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In questi giorni un film documentario sta viaggiando per i cinema di tutt’Italia. Si chiama My Nature, e parla di un ragazzo di nome Simone, che ha vissuto una vita avventurosa, un ragazzo nato con genitali femminili.
Mi è stata offerta l’occasione di guardare questo film e di intervistare Simone di Gianantonio, il protagonista, e Massimiliano Ferraina, il regista, e ho deciso di cogliere l’opportunità al volo.

Guardare My Nature è stata, indiscutibilmente, un’esperienza incredibile; un documentario che tocca molti temi importanti, come l’accettazione di sé e la ricerca della felicità, e che ti scava nel profondo. È la storia di un viaggio, un viaggio dell’anima che Simone ha intrapreso a quarant’anni, ma che ognuno di noi, nel profondo, dovrebbe percorrere indipendentemente dall’età.
È la storia di Simone, ma potrebbe essere la storia di ognuno di noi. La storia di ogni persona che abbia, nella sua vita, dovuto combattere una battaglia per poter affermare sé stess*, la storia di ogni persona che si sia trovata almeno una volta in piedi sull’orlo del baratro, chiedendosi cosa potrebbe accadere se solo saltasse, se solo accettasse chi è veramente, la storia di ogni persona che abbia dovuto compiere una scelta importante.

Ho visto il film senza sapere cosa aspettarmi: avevo visto solo un trailer, sapevo di cosa parlava, ma come la storia di quel ragazzo dagli occhi scuri e intensi che avevo intravisto nel breve video sarebbe stata portata avanti durante il trascorrere dei minuti rimaneva un’incognita, e di certo, non mi sarei mai aspettato che quell’ora e un quarto di pura poesia sarebbero stati così intensi, come un’epifania.
C’è qualcosa, in questo film, di incredibile. È, prima di tutto, visibilmente mozzafiato, grazie alla fotografia curata da Gianluca Loffredo, con sequenze di paesaggi che si susseguono alternandosi ad altre scene rubate dalla vita di Simone.
Ma quello che colpisce è la profondità delle parole e dei sentimenti, la loro universalità. In questo film si parla di paura, insicurezza, vergogna, del panico, di una guerra interiore per trovare il coraggio di compiere una scelta, ma si parla anche di amore, e di felicità.

My Nature va al di là di quello che può essere un “semplice” film LGBT+, perché insegna una lezione più grande: perché prima di essere gay, o lesbiche, o trans, o qualsiasi altra cosa, dovremmo essere felici.
Dobbiamo essere felici. Perché altrimenti, che senso ha?
“E io avevo fatto tutto questo per un lavoro che non mi piaceva? Per avere una vita che non volevo?” si chiede Simone.
Il messaggio trasmesso da questo film è potente: la natura interiore di ognuno di noi è la nostra vera guida.
Abbiamo tutti le potenzialità per essere felice, per trovare la nostra strada, perché queste cose sono a portata di mano: bisogna solo restare in ascolto.

 

Intervista a Simone di Gianantonio, protagonista.

Cosa ti ha spinto a girare un documentario sulla tua storia e, di conseguenza, metterti emotivamente a nudo di fronte alle telecamere?

Mi ha spinto un cambiamento, non fisico, ma interiore. Finalmente la paura che mi aveva accompagnato per 38 anni aveva lasciato il posto al coraggio. Credo che noi esseri umani ci nutriamo di storie (ascoltate, lette, viste… ecc) per poter aprire di più la nostra mente e il nostro cuore. Storie che a volte somigliano alla nostra o che hanno dei valori universali comuni che ci coinvolgono. My Nature tocca tanti aspetti della vita: identità di genere, lavoro, famiglia, disabilità, amore, relazioni, ritorno alla Natura, rincorsa dei propri sogni, spiritualità. Ed è questo che mi ha entusiasmato e mi ha dato la possibilità di uscire dalla paura di “espormi”.
Se ho contribuito, anche di un piccolo passo, nel “nutrire” qualcuno e nel demolire qualche pregiudizio allora tutti i miei sforzi non sono stati inutili.

 

Dal film emerge l’intenzione di raccontarsi in un periodo delicato: quello della cura, sottolineando quanto la cura del corpo e quella della propria psiche debbano andare in sintonia. Nella società moderna è certamente presente un sentimento condiviso di non appartenenza ed alienazione, soprattutto tra le generazioni dei più giovani. A tuo parere, un percorso emotivo e spirituale di cura immerso nella natura, come quello che hai fatto in Umbria, se effettuato da molte più persone, potrebbe influire sul nostro modo di vivere insieme come società o comunità?

Il mio percorso in Umbria mi ha aiutato a congiungere la mia natura corporea e psicologica con quella spirituale. Non parlo di religione, le religioni contribuiscono solo a dividere le persone. Parlo di quella nostra essenza che riscopriamo solo a contatto con la Natura. Ho ricontattato le mie radici attraverso la Terra e le mie ali attraverso il Cielo. E improvvisamente mi sono riscoperto protagonista della mia vita, libero da gabbie e ruoli, non più un robot che doveva eseguire i comandi della Società. Prima ero molto condizionato da tante cose ed ero infelice anche dopo la transizione sessuale. Riscoprirmi a contatto con l’aria, l’acqua, la terra, mi ha riportato ad avere fiducia nella vita e d’improvviso i miei pensieri che erano prima cementati come le strutture dove passavo la maggior parte del tempo, si sono ossigenati.
Così una mente più leggera mi ha dato modo di essere più consapevole, centrato e grato a me stesso.
Sono convinto che tante persone a contatto con tutto ciò possano contribuire a rendere migliore il loro piccolo “pezzo di mondo”.

 

Nel film si è potuto vedere un aspetto duplice della natura interiore, divisa tra vergogna e sentimento di colpevolezza per la propria transessualità, e l’accettazione di sé. Come hai precisato all’inizio del documentario hai dovuto combattere per molto tempo con “le gonne, la molletta tra i capelli e i fiocchi rosa”. Gli stereotipi di genere possono essere una vera violenza, e, certamente, non aiutano gli individui di genere non conforme, che cioè non rientrano nelle rigide norme di genere, nel processo della piena accettazione di sé. Ci esporresti la tua opinione a proposito?

Gli stereotipi in generale sono forme di violenza. Seguiti solo da chi si pone troppe poche domande nella vita e segue in modo automatico il pensiero di massa. In particolare, gli stereotipi di genere hanno lo scopo di omologare gli esseri umani in ruoli definiti e togliendo così la libertà di espressione si cerca di avere dei bravi soldatini che ubbidiscano a tutto quello che viene deciso dall’alto. Ma tutto ciò non ha niente di sano, basti vedere come funzionano le famiglie: tutto quello che viene mostrato come normalità spesso è patologico. Ho dovuto lottare molto contro gli stereotipi ed ora quel senso di vergogna che mi tormentava lo lascio a chi mi ha giudicato, a chi non riesce a sentirsi a proprio agio se intorno le persone decidono di essere libere.
Per fortuna, rispetto alla mia adolescenza, parlo di 30 anni fa, ora vedo una maggiore leggerezza (non superficialità) di espressione tra i ragazzi. Lo riscontro molto nel mio lavoro come psicologo, anche se devono districarsi tra umiliazioni in famiglia (per fortuna, sempre più rare) e pregiudizi da vari ambiti, lo fanno con un sorriso e una battuta ironica.
Al senso di vergogna che caratterizzava 30 anni fa molti di noi è subentrato un forte sentimento di orgoglio per la propria natura.

 

Hai trasmesso un messaggio molto potente ovvero che “la natura ti insegna un modo di vivere, un modo di essere”. Quanto coraggio costa seguire la propria strada?

Seguire la propria strada è un’esperienza in continuo movimento. Ad ogni passo che fai ti domandi se c’è coerenza, se il fuori e il dentro corrispondono, e solo allora decidi se puoi continuare quel cammino. Ho dovuto lasciare la mia zona di confort per comprendere chi veramente fossi. Ci vuole molto coraggio, ma soprattutto molta fiducia. Sono doni che si acquisiscono, si sviluppano e si rafforzano. Io ho lavorato sodo per poter essere quello che sono adesso, ma ogni giorno la vita mi regala la serenità e la pace con me stesso.

 

C’è qualcosa che vorresti comunicare, da adulto, ai ragazzi e alle ragazze transgender delle nuove generazioni?

Cercate la vostra verità. Non ingabbiatevi nelle verità degli altri, nelle speranze e nei desideri di chi ci vuole in un determinato modo, cercate il vostro modo di stare al mondo. Cercate quello che vi entusiasma, che vi regala un sorriso e poi lavorate sodo per i vostri sogni. Lavorate sodo… dentro di voi.

 

Intervista a Massimiliano Ferraina, regista.

Come è nato il progetto My Nature? Sei entrato tu in contatto con Simone o viceversa?

Dopo che Simone mi ha inviato una storia breve che aveva scritto come racconto autobiografico avevamo pensato di scrivere insieme un film di finzione basato sul fatto di quanto sia difficile rivelare di essere un uomo transessuale quando ci si ritrova in una nuova relazione affettiva. È stato un momento estremamente creativo e liberatorio, in cui, credo, Simone abbia realizzato quanto importante fosse trovare il giusto modo per raccontare la sua storia. Nello stesso periodo Simone era sempre più interessato a cercare di sviluppare un suo personale rapporto con la natura, una cosa che ho trovato immediatamente affascinante perché ricca di sfumature concettuali. Quando Simone ha deciso di lasciare il suo posto fisso per andare alla ricerca di qualcosa di più profondo in Umbria, il progetto My Nature è nato, ma nel film My Nature di quel progetto iniziale è rimasta “solo” l’intenzione di voler raccontare una storia universale, in cui molti possono trovare una risonanza con la loro vita. Il film racconta un momento nella vita di Simone, si concentra nel presente, ma si muove tra passato e futuro.

 

Per quanto tempo tu e il tuo team avete dovuto immergervi, letteralmente e non, nella sua natura?

Le giornate passate con Simone a Caserta e poi in Umbria sono state la base del nostro lavoro, oltre alle registrazioni che Simone ci inviava. Lunghe conversazioni, spesso registrate, momenti di uso della camera da parte di Simone.
Insieme a Gianluca Loffredo, abbiamo voluto sviluppare una profonda relazione con Simone. Una sorta di triangolo che ha vissuto tutte le fasi di un rapporto a tre. Oggi possiamo dire che quella relazione ci ha profondamente cambiati perché è concisa con esperienze, positive e negative, personali di tutti e tre. My Nature è sì il racconto della vita di Simone, ma credo si possa leggere su più livelli. Lo spettatore compie un viaggio nella natura del paesaggio umbro, che é parte integrante e rappresentazione nell’intimità del protagonista. In questo modo le manifestazioni dell’anima di Simone diventano parte di un racconto non astratto, ma reale, perché rappresentate visivamente attraverso le mutazioni del paesaggio ripreso nel documentario.

 

Nel girare le scene, quale era il tuo obbiettivo? Cosa volevi tramettere visivamente?

Ogni singola scena è stata pensata come parte dell’intreccio narrativo, ma anche il frutto di casualità e momenti non previsti. La fotografia, curata da Gianluca Loffredo, è parte integrante della narrazione. Nel film l’idea di base è che la ricerca della parte luminosa della vita di un individuo passa attraverso il contatto con la natura. Se stabiliamo un dialogo con la natura troviamo molte risposte alle nostre ansie e interrogativi.

 

Sei stato il regista di un’opera molto intima. Quanto questa esperienza influirà sui tuoi lavori futuri? Hai intenzione di girare altri documentari a tema LGBT+?

Il mondo delle persone LGBT+ ha contribuito e contribuisce alla costante ridefinizione della nostra comprensione del mondo. Le persone LGBT+ contribuiscono al cambiamento e alla creazione di una società più giusta e compassionevole non solo nella cultura, nella scienza o nell’arte, ma in tutti i livelli della società. Gli studi, i film, i libri sono patrimonio collettivo e sono un ulteriore strumento di ridefinizione della nostra comune umanità. Sono interessato a raccontare una parte invisibile del reale, quei piccoli-grandi cambiamenti che sono come una goccia nell’oceano, quindi mi piacerebbe poter esplorare e raccontare questo in altri progetti.

 

Nicholas Vitiello

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