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Era prevedibile, anzi attesa, una dichiarazione critica di esponenti della Conferenza episcopale sul disegno di legge sul riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. La discussione è benvenuta, secondo la buona regola laica per cui tutte le opinioni meritano rispetto.
Con l’ovvia condizione che non si pretenda di attribuire all’una o all’altra un valore aggiunto legato all’autorità, vera o presunta di chi l’ha manifestata. Una questione a parte, e di non poca rilevanza, è rappresentata dal senso che oggi assume la ben nota frase di Papa Francesco, riferita alle persone omosessuali, «chi sono io per giudicare?».

Il vero problema, e l’incognita, riguardano la cultura politica e la sua consapevolezza di quale sia il significato profondo ormai assunto dal tema dei diritti delle coppie di persone dello stesso sesso. La prima mossa è scoraggiante. Nella ricerca affannosa di un compromesso, si è fatto riferimento alla formula “formazione sociale specifica” per segnare una distinzione tra queste coppie e quelle eterosessuali unite in matrimonio. Ma questo espediente semantico è una forzatura, perché di formazioni sociali parla l’articolo 2 della Costituzione e sotto questa espressione stanno tutte le coppie, come peraltro aveva messo in evidenza, nel 2010, la Corte costituzionale. «Per formazione sociale s’intende ogni forma di comunità, semplice o complessa. Idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia».
Sono parole non equivoche e quelle sottolineate mettono in chiara evidenza che, in un quadro di dichiarato pluralismo, famiglia e quelle che oggi chiamiamo “unioni civili” appartengono alla stessa categoria. Inventarsi la “formazione sociale specifica” è un travisamento della Costituzione e la sua vera finalità, dovendo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, non è quella di introdurre una distinzione, ma di riaffermare una discriminazione.

Così la cultura politica si chiude in un misero orizzonte, conferisce dignità alle peggiori pulsioni e in questo modo si nega al mondo e non tiene in nessun conto una vastissima discussione giuridica che, pure in Italia, ha dato contributi di qualità. Forse, per rendersi conto dei rischi che si corrono, bisognerebbe dare un’occhiata in giro, cominciando da una frase della sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti, il 26 giugno scorso, ha riconosciuto l’accesso al matrimonio anche per le coppie omosessuali. «Ogni persona può invocare la garanzia costituzionale anche se larga parte dell’opinione pubblica non è d’accordo e il potere legislativo rifiuta di intervenire», perché bisogna «sottrarre le persone alle vicissitudini legate alle controversie politiche». Si può discutere questa affermazione, ma non eludere la questione che solleva: di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali.

Gli Stati Uniti sono lontani? Ma l’Europa è vicinissima, visto che il 21 luglio, quindi meno di un mese dopo la sentenza americana, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per il ritardo con il quale ha finora negato riconoscimento alle coppie di persone dello stesso sesso. L’argomentare di questa sentenza squalifica l’espediente linguistico adottato al Senato, visto che fin dal 2010 la Corte europea ha operato un progressivo avvicinamento tra diritti della coppia coniugata e diritti delle coppie di persone dello stesso sesso, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla “vita familiare” dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è bene aggiungere che questa dinamica è stata accelerata dall’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha fatto venir meno il riferimento alla diversità di sesso sia per il matrimonio che per altre forme di costituzione della famiglia.

Ora il Parlamento non è libero di riconoscere o no le unioni tra persone dello stesso sesso (l’Italia è già stata condannata a risarcire i danni alle coppie che hanno fatto ricorso a Strasburgo). Decidendo all’unanimità, la Corte europea ha sottolineato che siamo in presenza di diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. Il legislatore italiano ha il “dovere positivo” di intervenire e la sua discrezionalità è ristretta, poiché ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) ha già garantito quei diritti. L’importanza della questione discende dal fatto che siamo di fronte a diritti dai quali dipende la vita delle persone, che non può essere lasciata nell’incertezza o affidata a semplici patti privati o regole patrimoniali. Solo così può essere avviata la cancellazione di una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo sull’orientamento sessuale.

Questi riferimenti sintetici dovrebbero essere sufficienti per mostrare che i senatori, per essere una volta tanto coerenti con i criteri europei, hanno una strada ben segnata per quanto riguarda tempi e contenuti, come peraltro avevano già fatto moltissimi studiosi italiani. Piuttosto vi è un altro punto importante nella sentenza europea, dove si dice che i parlamenti nazionali non hanno lo stesso dovere stringente d’intervenire per quanto riguarda l’accesso al matrimonio delle coppie di persone dello stesso sesso. Si sottolinea, però, che questa più ampia discrezionalità dipende dal fatto che ancora solo 9 Paesi su 47 hanno riconosciuto a queste coppie l’accesso al matrimonio. Dunque, non da una immutabile natura del matrimonio. E, poiché si insiste sulla necessità di seguire le dinamiche sociali, il ricorso all’argomento quantitativo significa che, crescendo il numero dei Paesi che introducono il matrimonio egualitario, diminuisce la discrezionalità dei parlamenti nazionali se riconoscerlo o no.

Perché aspettare? Il Parlamento italiano fu lungimirante nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, già nel 2013 proprio al Senato era cominciata la discussione sul matrimonio egualitario, nel 2013 e nel 2015 la Corte di Cassazione aveva aperto proprio in questa direzione, sì che diventa sempre più debole il riferimento ai deboli argomenti della Corte costituzionale.
Non è possibile, allora, introdurre un riconoscimento delle unioni civili che si presenti come una chiusura, come una concessione basata su una discriminazione. Non cediamo a un realismo regressivo. Ha ben ragione uno studioso attento, Andrea Pugiotto, nel ricordarci che «il paradigma eterosessuale del matrimonio crea incostituzionalità, perché oppone resistenza non a un capriccio, né a un desiderio, né ad una “(innaturale) pretesa”, ma al diritto individuale alla propria identità personale».
Ma, soprattutto, si vorrebbe che la discussione muovesse dal suo innegabile presupposto – l’essere di fronte al più profondo tra i sentimenti che possono legare due persone. E allora politici, giuristi, cardinali abbandonino ogni ipocrisia e siano sensibili all’appello rivolto a tutti da un poeta, W. H. Auden. “La verità, vi prego, sull’amore”.

 

Stefano Rodotà
fonte: Repubblica, 7 settembre 2015

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