Skip to main content

Gli “auguri” ciclicamente dispensati dall’industria pubblicitaria in onore dell’8 marzo, “Giornata internazionale della donna”, sono sempre più spudorati nel loro maschilismo; misogini quando non irresistibilmente ridicoli. Fra le pieghe retoriche dei loro filantropici auspici, è possibile cogliere un insulto indisponente e un chiaro intento: la lusinga all’acquisto come conquista; ovvero l’atto di ricorrere a beni e servizi solitamente indirizzati ad un pubblico maschile per utilizzarli in qualità di “ribellismi di facciata”.

La conquista di pieno riconoscimento, ovviamente, non è acquistabile; eppure telefonia mobile, internet, pay tv, negozi e locali smerciano tariffe agevolate, spacciano il rituale del consumo come cerimonia di emancipazione. Pontificano mondi meravigliosi grazie a figure di donne stereotipate. Tempo 24 ore, tuttavia, e segue un altro anno solare in cui la “donnità” persiste ad essere impiegata quale specchio per allodole, ideale di fisicità ed estetica, immaginario compiacente funzionale alla logica del profitto.

La donna, il suo corpo in primis, è ancora ridicolizzato o banalizzato in gran parte degli spot o dei format, nonché costretto a farsi esempio delle più imbarazzanti disfunzioni o patologie che mai i rivenditori si sognerebbero di attribuire al sesso maschile. In buona sostanza, il genere femminile fa comodo, e bisogna tenerselo stretto; ma per “mantenerlo buono” dev’essere adulato come specifico target, omogeneizzato nella pasta monocromatica del “consumatore”. Ed ecco che la pratica dell’acquisto “orientato al genere” si sbugiarda da sé quale risposta d’impulso che sostituisce profonde prese di coscienza e conforta il bisogno di riconoscimento in una modalità di espressione che non serba conseguenze o impatti duraturi. In altre parole, credere di ribellarsi consumando significa aderire ad un modello di “comportamento suggerito”, strozzare la voce ribelle delle minoranze nella fiacca adesione a quei “privilegi” ritenuti tali dalle categorie di pensiero dominante.

Il proselitismo industriale, che tramuta le maggiori festività in “pretesti di vendita” mercificando i rapporti, non è affatto un fenomeno inedito. Ma per quanto concerne l’8 marzo, in gioco v’è qualcosa di molto più delicato. La simbologia della “giornata della donna” riproduce “soprattutto” l’ideologia maschilista, ossia opera imponendo il lessico fallocentrico della crescita economica attraverso categorie e i ruoli imposti; declinando il vivere, il successo, l’emancipazione o il desiderio di autenticità secondo la curva erettile dei grafici di crescita.

Celebrare l’8 marzo, probabilmente, non dovrebbe esaurirsi nell’allestimento di un deprimente banchetto. La celebrazione consumistica per rivincita non rivendica proprio un bel niente, traduce semmai una doppia sottomissione: l’interiorizzazione di una logica discriminante a cui, anziché proporre una contestazione, ci si prostra e ci si consacra senza difese.
Personalmente, ma è solo l’opinione di chi scrive, ritengo che ciascuna donna dovrebbe ritenersi offesa qualora “semplicemente” festeggiata, omaggiata. L’8 marzo, infatti, nasce quale occasione di presa di coscienza, affinché, come d’altronde leggevo su più articoli critici proprio in questi giorni, aborrita la festa si possa promuovere una ribellione attiva sempre e comunque. In qualità di simbolo, l’8 marzo, potrebbe essere il punto di partenza di una serena contestazione che il “popolo” maschile dovrebbe appoggiare, se realmente questi ha a cuore il ben-essere (e non solo il ben-avere) delle donne.

Contestare pacificamente nell’esperienza quotidiana l’utilizzo del paradigma maschile – più veloce, più alto, più grande, ecc. – come chiave unidirezionale di lettura della realtà potrebbe essere un primo passo. Si tratta di recuperare gli elementi di un pensiero antinomico (più piccolo, più equo, più lento) in rifiuto del più becero accostamento fra felicità e accumulo materiale e di quell’equazione che va misurando il valore di un uomo e di una donna unicamente secondo le rispettive capacità di “inceneritori di risorse”.

Sabotare la sottile misoginia del sistema passa, allora, per il rifiuto di un ossequioso conformismo al consumo, al fine di promuovere relazioni orizzontali e in contrasto con la logica dominante: ridisegnare il contesto sociale non in funzione della circolazione delle merci ma delle idee e delle persone attraverso l’home made, il riciclo, la banca del tempo, ecc. Semplici gesti che, da soli, potrebbero contribuire a denunciare il sogno narcisistico della crescita verticale come ossessione tipicamente maschilista; delirio di una cultura che anziché dimostrare la propria virilità, in fin dei conti dimostra semplicemente la propria incontinenza, costretta com’è a svuotare ogni giorno le proprie urgenze nei canali adibiti.

Le donne non hanno bisogno di un giorno all’anno “generosamente” concesso, ma di prendersi quotidianamente ciò che spetta loro, resistere al di là degli assunti mitologici della cultura in cui vivono, liberare la semantica del loro corpo, far prevalere la loro identità radicale prima ancora o al di là del sistema di genere che detta norme, regole e gerarchie, scindere il proprio destino dal sesso e perciò mettere radicalmente in discussione ogni automatismo.

All’8 marzo come strategia economica credo debba essere sostituita una ragionata indocilità verso un certo tipo di imperialismo culturale machista, troppo spesso ammesso e accettato senza beneficio del dubbio.

Altrimenti quella data resterà certamente una “festa”, ma nient’affatto una “prova” di pieno riconoscimento.

Michele Cavejari