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“Liberazione. Liberazione. Liberazione”. Queste erano le parole che sentivo più spesso alle mie prime riunioni politiche. Poi la lettura di Mario Mieli e la sua affermazione: “Noi abbiamo il gayo compito di reinterpretare tutto dal nostro punto di vista”.
Infine, uno specchio. I miei occhi riflessi. La visione di un corpo. Il mio. Il corpo di chi scopre di non essersi accettato. Un corpo che aveva perso tanti chili, da cui dovevano essere eliminati i segni dell’imperfezione come peli e cicatrici e che, per questo, era in continua trasformazione. Il motivo per cui imponevo modifiche al mio corpo non era certo soddisfare il gusto di una mia idea estetica; piuttosto il bisogno di compiacere, in tutto, una società basata su modelli stereotipati, copie perfettamente efficienti e compatibili con un sistema che finisce per escludere le diversità.

Così attraverso questa serie di momenti ha avuto inizio la mia esperienza con il movimento LGBTQI: stravolgente viatico nel mio cammino di accettazione, sprone nei momenti di sconforto, spinta di incoraggiamento alla prova più importante: il confronto con mamma e papà.

In realtà il mio percorso di liberazione aveva avuto inizio dall’età di sedici anni, ma la condivisione della mia vita personale all’interno delle mura familiari tardava ad arrivare. Forse per paura. Forse per una non completa accettazione. Così quando parlarne liberamente era divenuto l’obiettivo più grande e sentii la necessità di essere trasparente con le persone che amavo, solo allora, in un’afosa domenica siciliana, quando tutti eravamo riuniti attorno al luogo per noi più intimo, la tavola, ecco, in quel momento, la mia condivisione.

Da quel giorno, in cui sono nato per la seconda volta, si è avviato il mio percorso di attivista. Ho accettato, così, la proposta di assumermi la co-responsabilità della gestione del gruppo giovani della mia associazione romana, il “Circolo Mario Mieli”. Questo impegno si è presentato fin da subito come una sfida contro l’esclusività delle interazioni virtuali ad immediato consumo, e come un’opportunità da dare agli altri di conoscersi partendo da una stretta di mano o da uno sguardo reale. Il qui e ora: questa era la sfida.

“Out” è il nome del gruppo giovani con il quale questa attività ha avuto inizio e che, ancora oggi, ha le forme di un laboratorio di idee e al contempo di una palestra di vita. Ripartire dalla nostra esistenza, mettendo in discussione la norma eterosessista introiettata. Decostruire per ricostruire. Creare un vuoto, uno spazio per ricominciare a mettere i pezzi del puzzle secondo il nostro originale e personale ordine. Questo è ciò che facciamo. Reinterpretare tutto. Ma proprio tutto. Anche i canoni estetici.

E la mia partecipazione a Mister gay world 2014 deve essere letta alla luce di tutto questo: la partecipazione non di un cultore di show o della moda, quale infatti non sono, piuttosto del portavoce di un messaggio, quello che con alcuni giovani di “Out” abbiamo sintetizzato nello slogan “Beauty is authenticity”. Bellezza è autenticità.

È stata un’operazione comunitaria e non identitaria. L’intento era di condividere quanto stavamo sperimentato nella nostra vita: l’accettazione di sé che investe ogni aspetto, anche quello estetico, e che richiede di ripartire da sé, dai propri desideri. Conoscere e amare ciò che si è e si desidera. Decidere di disporre del proprio corpo secondo i propri criteri e le personali logiche con l’unico fine di piacere a se stessi e di coincidere sempre più con il proprio desiderio. Questa è autenticità.

La nostra proposta ha trovato il consenso inaspettato di tutte le associazioni LGBTQI italiane, locali e nazionali, che hanno scritto comunicati stampa a sostegno dell’iniziativa. Inoltre, tanti messaggi di incoraggiamento sono arrivati da tanti giovani anche dall’estero, col risultato che il nostro appello è stato tradotto in 28 lingue. Infine anche la stampa, sia nazionale che estera, e in modo particolare quella francese, ha dato risonanza a quella che ormai era divenuta una vera e propria campagna sociale. Il sindaco Renato Accorinti della mia città natale, Messina, si è premurato di accogliermi in Municipio in un incontro ufficiale.
Certo, non sono tardate le critiche, soprattutto da parte degli organizzatori dello stesso concorso che si erano trovati di fronte ad una serie di situazioni impreviste, soprattutto quando per i photoshoot mi sono presentato con scritto sul corpo “Beauty is authenticity”.

Riconosco che è difficile comprendere il senso della mia partecipazione al concorso internazionale di Mister gay world 2014 (tra l’altro per la prima volta ospitato in Italia) e che potesse sembrare un’invasione di campo bell’e buona. In realtà, vogliamo creare spazi di libertà non solo all’interno della società, ma anche nel nostro stesso movimento LGBTQI che, come dimostrano eventi quali Mister gay world, è profondamente uniformato alle logiche tipiche delle società eterosessiste, come la nostra. I nostri spazi di libertà, invece, sono dei luoghi in cui quello che conta è l’autodeterminazione dell’individuo. I nostri sono spazi di libertà che intendono resistere alla maniera in cui i nostri corpi, i nostri desideri e gli stili di vita sono prodotti e messi in commercio.

Il movimento LGBTQI è nato come istanza di liberazione dei corpi, e noi oggi vogliamo essere ancor testimoni dell’autenticità dei nostri corpi. Per questa ragione, credo che il nostro attivismo non può arenarsi al piano delle rivendicazioni, non possiamo parlare solo di diritti, perché così perdiamo di vista le pratiche di liberazione. In altre parole, non possiamo limitarci a leggere i giornali e organizzare flash mob, dobbiamo anche riprendere in mano i libri, studiare, approfondire le questioni di genere e tirarne fuori nuove pratiche di trasformazione. Occorre fare autocritica sulle nostre responsabilità nel processo di normalizzazione e mercificazione dei corpi, rischiando di far diventare prodotti del mercato anche le rivendicazioni per i diritti. Alcune domande giusto per fare un esempio: nelle nostre serate a tema, quali modelli estetici proponiamo sui nostri palchi? Nelle nostre riunioni di movimento, quale ruolo rivestono le analisi attinenti le pratiche di liberazione? Quale interesse ricopre nelle nostre strategie il corpo minoritario intersex, transessuale e anche quello femminile?

Sono convinto che come attivisti dobbiamo continuare a guardare i palazzi del potere per ottenere ciò che ci spetta ma senza perdere di vista la nostra quotidianità, quei luoghi in cui si consumano le tragedie dovute alla non accettazione, dove prendono forma i tanti disturbi psichici, come quello alimentare, segno di un disagio che si manifesta direttamente sul proprio corpo.

Queste sono le riflessioni che ho portato con me sul palco di Mister Gay world 2014, rappresentando l’Italia. condensate nello slogan “Beauty is authenticity”. E questo spiega anche perché, durante il concorso, ho deciso di portare gli abiti del partigiano della liberazione e di lasciar cadere dalle mie mani una catena spezzata.

Quando ci è stato richiesto di sfilare in costume da bagno, a differenza del passato, non ho temuto di mostrare le cicatrici, il grasso e i peli. Così, giunto all’estremità del palco, dopo aver sfiorato con le mie mani tutto il mio corpo e alzato le braccia al cielo in segno di liberazione, mi sono rivolto alla giuria toccando la mia pancia e facendo un forte segno di apprezzamento.

Infine, al momento della sfilata in abito elegante, ho indossato, oltre alla giacca scura e al papillon tricolore, anche le scarpe con i tacchi, in memoria di Stonewall e di tutti coloro che, oltre norma, interpretano in modo personale e originale il proprio ruolo di genere.

Tutti gesti e segni, questi, che avevano un chiaro significato simbolico.

Il ricordo più bello che ho di questa esperienza, però, lo conservo come una foto nella mia memoria; ritrae i miei amici, quasi tutti presenti, che mi tengono in braccio e, insieme a loro, mamma e papà, che mi guardano con gli occhi lucidi, illuminati da un senso di soddisfazione, d’orgoglio. Orgoglio. Pride. Questa parola a noi tanto cara, io l’ho vista, quella sera, in fondo ai loro occhi. E la foto c’è, ce l’ho sul cellulare, su tutti i social network.

Ma quella che conservo nella memoria è più bella, perché è mia, solo mia. Perché è viva.

Nicola La Triglia