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Che della persona con disabilità ci si debba prendere cura è divenuta ormai una verità assodata. Il problema è tuttavia rappresentato da cosa si intende quando si parla di cura. Ciò che è legato al sostentamento più pratico (come bere, mangiare o l’insieme delle pratiche legate all’igiene personale) garantisce certo dignità. Ma siamo sicuri che per una vita degna basti mangiare bene, bere adeguatamente e mantenersi puliti?

In realtà questi sono bisogni primari senza dubbio necessari, ma che, in quanto tali, rappresentano solo una base da cui partire per costruire qualcosa di più grande. Qualcosa che è formato da tanti altri aspetti in grado di trasformare un soggetto con disabilità nella persona che è, conferendogli la specificità identitaria che merita. Si allude ai diritti, quelli di cui spesso tanto si parla in maniera superficiale. E, in questo caso specifico, ci si riferisce a quel diritto che non rischia nemmeno di essere trattato in modo superficiale, semplicemente perché non se ne parla proprio. È il diritto alla sessualità.

Io sono omosessuale, sessuale e disabile. Se già la sessualità della persona con disabilità (il cui corpo è raramente suo nel senso più intimo) viene il più delle volte sottovalutata, quella di una persona che oltre ad esibire la propria disabilità appartiene al mondo LGBT spesso non viene proprio concepita, come se si trattasse di un beffardo scherzo della natura. Quando in realtà l’unico scherzo della natura in tutto ciò è rappresentato dalla disabilità stessa.

Uomo oggi e adolescente ieri, a sedici anni sono stato colpito da una malattia neurologica che mi ha progressivamente compromesso la capacità di muovermi agilmente. Uomo oggi, adolescente ieri e bambino ancora prima, da quando di anni ne avevo sei, so di essere omosessuale. Mi sono ammalato in un periodo critico, quando ci si affaccia alla vita e la propria sessualità si comincia a viverla.
All’inizio non è stato facile e ho cercato in ogni modo di negare la mia diversità, che, a ben guardare, non è solo una. Inizialmente mi sono sentito vittima di una doppia diversità e ho trascorso anni bui durante i quali ho negato la differenza che, rispetto a quella fisica, potevo nascondere agli altri. Ma non a me stesso.

A prendere il coraggio spesso non bastano quattro mani e almeno otto me ne sono servite per intraprendere un percorso che mi ha permesso di conoscermi meglio e di costruirmi una corazza sufficientemente forte per andare incontro al mondo e ad entrarci dentro con il mio corpo disabile e la mia abile sessualità.
Come conseguenza di questa presa di coscienza mi sono confrontato con realtà che, in maniera più o meno diretta, affrontavano il problema rappresentato dal binomio disabilità – sessualità. Dal giugno del 2004 a Pistoia, dove si è tenuto il primo convegno nazionale di disabili LGBT al quale ho partecipato, sono approdato nel 2015 al Cassero di Bologna, dove un attivista gay mi ha messo in contatto con altri ragazzi con disabilità appartenenti al mondo LGBT. Sebbene ognuno di noi avesse proprie particolarità specifiche che lo distinguevano dagli altri, il tratto che ci accomunava era rappresentato dal bisogno di creare qualcosa che ci garantisse l’uscita dall’anonimato non facendoci più sentire una specie rara. E quel qualcosa ha assunto la sembianza di un gruppo che, nato ufficiosamente nell’aprile di quello stesso anno col nome di Jump (link) e riconosciuto un mese più tardi dal Cassero, con l’andare del tempo è cresciuto coinvolgendo anche due persone LGBT senza disabilità. Questa apertura è testimonianza chiara di come Jump vada davvero oltre tutte le barriere, di come ponga al centro di tutto l’essere umano che, prima ancora di essere con o senza disabilità, è una Persona.

Fin da subito Jump ha avuto lo scopo di combattere per l’eliminazione di alcuni stereotipi odiosamente diffusi, tra i quali il più insidioso, quello secondo cui il disabile sarebbe una sorta di eterno bambino privo di pulsioni sessuali che, insieme ad altri elementi, caratterizzano l’adultità. Perché anche il disabile a prescindere dal deficit, motorio o cognitivo, arriva ad essere un adulto; e se da lui ci si aspetta che abbia una vita sociale (da adulto), un lavoro (da adulto), non si capisce perché mai non dovrebbe avere anche una sessualità compatibile coi suoi anni. È proprio partendo dal concetto di adultità che Jump insiste sulla necessità da parte del disabile di autodeterminarsi, riconoscendo in maniera autonoma cosa vuole fare della propria vita e non lasciando che siano gli altri ad imporre il loro volere. L’autodeterminazione è ciò da cui partire per poter poi costruire una vita indipendente ed una sessualità altrettanto libera, che, in tal senso, si pone alla fine di un cammino come risultato di un percorso di autonomia. Jump parte dall’individuazione dei bisogni primari che sono necessari a qualsiasi essere umano, ma non si ferma qui; da questi bisogni anzi prende la rincorsa per fare un salto e andare oltre il muro al di là del quale c’è la vita.

 

Pierluigi Lenzi

Gruppo Jump LGBT

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