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Gli stereotipi possono essere definiti come meccanismi del pensiero umano che conducono verso il processo di categorizzazione. La nostra mente è continuamente portata a inserire in categorie tutto ciò che incontra, creando la cultura; al contempo, quindi, questi prodotti culturali esprimono valori e vengono utilizzati per comunicare un accordo generale su un determinato gruppo sociale. Attraverso le categorie addomestichiamo il mondo.
Grazie agli stereotipi gli uomini e le donne nominano tutto ciò che è possibile nominare (tipi di relazioni, schemi di comportamento, sfaccettature della complessità e modelli culturali), trasformando e creando. Riusciamo a comprenderci perché tutto ha un nome riconosciuto e condiviso, che va oltre il linguaggio. Il rischio è affezionarsi culturalmente a modi di descrivere e vedere ciò che ci circonda, cadendo in stereotipi immodificabili.
Quanto costruiamo? Quante implicazioni politiche si affacciano sulla dinamica della descrizione stereotipata?

Nominare può significare poter controllare. E avere il potere su ciò che è determinato e definibile, permette di limitare la paura, il senso dell’ignoto. In altri termini, la denominazione produce conoscenza e, quest’ultima, potrebbe essere “il farmaco” per la cura di una fobia.
Le ossessioni, le ansie e le frustrazioni governano le relazioni interpresonali, intra-personali ed extrapersonali. Come mai? In che modo? Quando non conosciamo ci sentiamo angosciati?

La politica dell’approccio pedagogico che utilizza la parola genere al posto di sesso prelude a un divenire sociale distaccato dalla rigidità dell’identità di genere e dei rapporti tra i generi; dichiara che non esiste un unico modo per essere donna o uomo e stimola la libertà. Le facoltà decisionali, cioè le possibilità di scelta, sono strutturate culturalmente e riguardano l’immaginario comune che lega strettamente i due sessi ai due generi. La società comanda i nostri desideri, i nostri corpi e le nostre inquietudini. Essere donna porta con sé una serie di attributi, di scelte di vita, come la maternità, la cura, la bellezza e la delicatezza. Essere uomo, d’altra parte, è sinonimo di potere, controllo, protezione e forza.
Il sesso biologico struttura il nostro destino di uomini o donne?
Ognun* ha la propria vita in mano e l’occasione di viverla autonomamente e individualmente. Il diritto di scegliere – che legittima la responsabilità di ogni azione – si affianca al concetto di autodeterminazione. Lo scardinamento degli stereotipi potrebbe avvenire, quindi, attraverso la presa di consapevolezza della possibilità di essere se stessi, annullando – o quantomeno frenando – la necessità di apparire come qualcuno o di cercare di essere qualcuno, rispondendo, in continuazione, alle aspettative sociali legate al genere.

Se la dicotomia donna/uomo (o meglio femmina/maschio), in quanto costrutto sociale, dona un senso di sicurezza rispetto all’immagine del maschile e del femminile, ciò che incute timore è l’androginia, l’identità di genere fluida. Un certo tipo di repulsione, infatti, non permette la demolizione delle gabbie di genere. Non è solo l’essere che fa paura: ciò che il proprio vero essere sessuato può provare, questo è un nodo cruciale.
Anche se la sessualità è definita parte integrante della formazione identitaria di ogni individuo, essa rimane un tabù perché permette il rimbombo della necessità di determinarsi.

In questo contesto, volendo provare a far incontrare le parole con la vita quotidiana, alcuni movimenti politici e ideologici – con visioni non laiche dell’educazione -, hanno nominato un insieme di atteggiamenti considerati “sessualmente rivoluzionari”, creando il movimento no gender. L’incertezza e il carattere incontrollabile di tutto ciò che non è considerato eteronormativo, risulta sovversivo, non risponde ai canoni definiti dal contesto culturale e sociale. Hanno sentito l’urgenza di arginare lo sconfinamento del nemico, inserendolo all’interno di un sistema chiuso. Il movimento no gender è dispotico, insensibile, rigido in posizioni, molte volte, “di principio”.

Il movimento gender, d’altra parte, appare come una politica scamiciata, anarchica. Tuttavia, il termine anarchia deriva dal greco e vuole indicare la libertà assoluta dell’individuo nel dispiegamento della sua essenza, della sua attività ed energia. Significa che promuove un allargamento del campo delle possibilità di ciascuna persona. La fantomatica “ideologia gender” esiste solamente in un’ottica di riconoscimento, nella volontà di essere riconosciuti. La necessità, oggi, di farla esistere sta proprio nella sua potenza politica e nel suo carattere rivoluzionario. Non esiste, però, nella contaminazione di pensieri violenti che denunciano fatti mai accaduti, che incolpano scuole e servizi educativi di azioni mai nemmeno pensate.
Il movimento gender è libertario, onesto rispetto alla verità di ciascun*, solidale verso il singolare agire che non lede gli spazi altrui, che non nega, ma somma, moltiplica. Sostiene: ciò che “sessualmente rivoluzionario” è solo una forma di garanzia del proprio benessere individuale.

Se è vero che siamo continuamente influenzati dagli stereotipi, dal mondo in cui viviamo e nel quale viviamo, vorrei promuovere un’opportunità di conoscenza di se stessi, del corpo e dei suoi limiti; considerare la consapevolezza dei desideri e della processualità della costruzione dell’identità di genere come paradigma dell’educazione che, per sua natura, non domina, ma potenzia. Appartenere a un sesso può significare affiancarsi a una parte della propria personalità, che non sia dittatrice della propria identità di genere e che la società tutta non ricopra, anch’essa, il ruolo di legislatrice riguardo al nostro sentirci uomini, donne o semplicemente noi stess*.
Promuovo di ri-formulare una politica di noi stessi perturbante, ribelle, ri-pensandoci all’interno di dinamiche di trasformazione. Provare a sostenere il nostro sentirci entusiasmat* dal variegato e multicolore modo di esistere.

 

Giulia Carloni

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