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Oggi si conclude un mese importante per quanto riguarda i temi della salute mentale e della varianza di genere: il 10 ottobre si è celebrato il World Mental Health Day, a pochi giorni di distanza dalla Giornata Internazionale di Azione per la Depatologizzazione Trans, il 21 ottobre.
Di particolare importanza è stato commemorare le due date durante il 2017, anno nel quale è in corso la revisione dell’ICD-10 (il manuale di classificazione delle malattie secondo l’OMS) la cui undicesima versione è prevista per giugno 2018.
É dunque in quest’occasione che desideriamo dedicare uno spazio di discussione alla salute mentale e fisica delle persone trans.

Dal 2009, STP (Stop Trans Pathologization) supporta la Campagna Internazionale di Azione per la Depatologizzazione Trans con specifici obiettivi tra i quali la rimozione dei processi di transizione di genere dalla categoria di disturbo mentale nei manuali diagnostici ICD e DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). A questo si aggiungono altri goal non meno rilevanti, come l’accesso ad un servizio sanitario dedicato e finanziato dallo stato, un cambiamento del modello di assistenza sanitaria per le persone trans, il superamento dell’idea che la diversità di genere sia una malattia (depatologizzazione), e la protezione dalla violenza transfobica.

Per capire quale sia attualmente lo stato delle cose relativamente al primo obiettivo, è opportuno fare un rapido excursus sull’evoluzione degli stessi manuali.
All’interno del primo DSM-I (1952), e dei primi due ICD-6 e ICD-7 (1948; 1965) non vi era accenno al transessualismo o al travestitismo, che appariranno invece nel successivo DSM-II (1968), inseriti nella categoria delle Deviazioni Sessuali insieme con l’omosessualità e alcune parafilie (come pedofilia, necrofilia, voyerismo e feticismo), mostrando una concezione ancora patologizzante e confusa del fenomeno.
Convenzionalmente si attribuisce al DSM-III (1980) l’ingresso della questione transessuale, grazie al crescente numero di studi condotti in quegli anni, insieme con l’eliminazione dell’omosessualità dalla categoria delle deviazioni sessuali. Si parla a questo punto di Disturbi di Identità di Genere (DIG). Se nel successivo DSM-IV (1994) ci si riferisce ancora al Disturbo dell’Identità di Genere, è nell’ultima edizione del 2013, il DSM-5, che si assiste ad un cambiamento nella denominazione: si inizia infatti a parlare di Disforia di Genere. Viene abbandonata la dicitura ‘disturbo’ ed introdotto il termine ‘disforia’, la cui etimologia risale al greco δυσϕορία ‘angoscia’, ‘pena’, con cui si fa riferimento al sentimento di stress o disagio che alcune persone possono sperimentare in presenza di incongruenza tra il genere di cui si fa esperienze e i caratteri sessuali primari e secondari. Questo termine apparve più appropriato poiché rappresenta uno stato emotivo negativo nei confronti del proprio genere. Ciò implica fondamentalmente due conseguenze: la prima è che non ci si riferisce più a un disturbo dell’identità, cioè non si sostiene più che tutte le persone “gender variant” (quelle che non si collocano all’interno degli stereotipi del binarismo di genere) abbiano un disturbo mentale, ma si considera la sofferenza che potrebbe essere arrecata da questa condizione. La seconda conseguenza, direttamente collegata alla prima, è una minor patologizzazione, proprio perché soltanto alcune persone di genere non-conforme presentano disforia di genere nella loro vita e solo coloro che ne traggono disagio riceveranno una diagnosi. Questo cambiamento è positivo, ma resta un limite: non si riconosce l’origine di tale malessere che spesso non sarebbe dovuto a un conflitto sulla propria identità, quanto più all’ostracismo sociale. Alcuni studi, infatti, hanno argomentato come i bambini gender variant non siano stressati o depressi per la loro condizione, ma lo diventano nel momento in cui i genitori, i pari o la società iniziano a stigmatizzarli.

La questione è assai diversa per quanto riguarda l’International Classification of Diseases.
Nel ICD-10 (1992) compare il Disturbo dell’identità sessuale dell’infanzia, inserito all’interno dei Disturbi Psichici e Comportamentali. Il dibattito è aperto. La Corte Europea per i diritti dell’uomo ha preso una forte posizione affinché il transgenderismo non venga più considerato una malattia mentale e quindi non venga inserito nel futuro ICD-11.
Tuttavia, una corrente di pensiero ritiene che l’esistenza di una diagnosi sia importante: grazie a questa, infatti, è possibile mantenere vivo il filone di ricerca sui trattamenti, al fine di migliorare la qualità di vita dei pazienti, nonché garantire agli utenti legittimati a ricevere le cure sanitarie gratuite.
Un altro filone di pensiero, invece, preferirebbe l’eliminazione della diagnosi da entrambi i manuali, ICD e DSM, per differenti ragioni, tra le quali l’esistenza di una relazione tra la diagnosi psichiatrica, la stigmatizzazione e i diritti umani. Un esempio di tale correlazione sarebbe ampiamente dimostrata dalla rimozione dell’omosessualità dal DSM alla quale sarebbe seguito un vastissimo aumento del grado di accettazione degli omosessuali nella società. Infatti, spesso le malattie psichiatriche rendono oggetto di stigma sociale chi ne è portatore, e si può immaginare come nei casi in cui una persona presenti la combinazione di transgenderismo e di disturbo mentale si possa creare una situazione discriminante in grado anche di gravare sulle condizioni di salute della persona.
Un’opzione che potrebbe costituire un compromesso è l’eliminazione della diagnosi dalla sezione delle Patologie mentali e del Comportamento dell’ICD, per inserirla nelle categorie delle malattie rare, genitourinarie o endocrinologiche. In questo modo la disforia di genere verrebbe individuata come una condizione puramente medica, diminuendo lo stigma e allo stesso tempo garantendo l’accesso alle cure. D’altra parte, non tutta la popolazione che ha questa diagnosi desidera effettuare un percorso ormonale o un’operazione chirurgica di riassegnazione sessuale, non necessitando così né di una diagnosi né di un trattamento.

Alla luce delle critiche e delle proposte esposte sopra, il DSM-5 e l’ICD-11 sarebbero un tentativo di trovare un compromesso tra le parti, tra coloro che vorrebbero l’eliminazione della diagnosi e coloro che ne sottolineano l’aspetto positivo della fruibilità delle cure. Al dibattito sulla diagnosi in campo medico e psicologico si aggiunge la questione dell’accesso diretto ai trattamenti specifici che risulta ancora patologizzante in grande parte dei sistemi sanitari, al punto che molte persone trans non si recano dal medico per paura di essere discriminate o per mancanza di un’assicurazione sanitaria. Si presentano nel mondo dinamiche di esclusione delle persone trans, aggravate dalle violazioni dei diritti umani, tra cui il rilancio delle cosiddette terapie di “conversione” e “riparazione”, la persecuzione religiosa contro i cittadini LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali e asessuali) in diversi paesi e la costante realtà di violenza contro la diversità di genere e l’impunità dei suoi autori.

Al di là delle diverse critiche e delle diverse proposte sulla diagnosi in campo medico e psicologico, si deve infatti sempre ricordare che essere trans non è una malattia o un disturbo mentale e che, in secondo luogo, il diritto all’attenzione sanitaria è pari a quello di qualsiasi altra persona. Ci si aggrega pertanto all’appello di Transgender Europe (TGEU) di unirsi per garantire l’accesso universale al riconoscimento giuridico di genere, alla sanità e alla sua copertura assicurativa, alla protezione contro tutte le forme di stigma, discriminazione e violenza.
In questo mondo, la depatologizzazione trans non riguarda solo la classificazione psicologica e medica ma il modo di vivere.
Si vuole concludere ricordando quanto attesta la WPATH (The World Professional Association for Transgender Health) nello Standards of Care del 2011 (p.4):

Being transsexual, transgender, or gender nonconforming is a matter of diversity, not pathology. – Essere transessuali, transgender o di genere non conforme è una questione di diversità, non una patologia.

 

Letizia De-Coll’

 

 

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