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Tante volte al cinema (quello con le poltroncine rosse e la scritta intervallo tra il primo ed il secondo tempo) si va per passare un po’ di tempo a sognare esistenze fantastiche oppure assistere alla versione un po’ più movimentata della nostra vita ed evadere dalla propria quotidianità o per ammirare le gesta di eroi, vichinghi dal maglio lucente al sole dell’ aurora boreale o che saltano da un palazzo all’altro sparando ragnatele dai polsi, stretti in tutine troppo aderenti nelle quali sembra a noi spettatori difficile entrare.

Altre volte invece si va al cinema perché si è letto di un film dalla trama inconsueta oppure laterale nella propria ordinarietà, il cui protagonista ci assomiglia, anzi è un po’ più bruttino e sgraziato di noi, ma per una ragione non subito comprensibile ci seduce e ci affascina; è quanto accade in quei film, spesso differenti tra loro per genere, diffusione, spazio occupato nell’ immaginario collettivo e  premi vinti, che però hanno tutti in comune un elemento di fondo: il protagonista, o il gruppo di protagonisti, potrebbero essere i nostri vicini di casa o i nostri colleghi, potremmo essere addirittura noi se la nostra vita fosse in celluloide, cioè se le nostre azioni e ciò che in genere si pensa ma non si dice (almeno non sui social) non avessero conseguenze gravi o almeno non irreparabili.

A tal proposito mi viene in mente in primo luogo un piccolo film macedone del 2019, intitolato “Dio è donna e si chiama Petrunya” per la regia di Teona Strugar Mitevska.

Questo film dal piccolo budget ma dal grande messaggio, narra delle disavventure quotidiane di Petrunya, una donna quarantenne disoccupata, laureata in storia e non bella, almeno non canonicamente. Trattata con freddezza dalla famiglia perché non ha ancora trovato il suo posto nel mondo, molestata durante un colloquio di lavoro da un selezionatore che la vorrebbe assumere non tanto come contabile ma come segretaria disponibile ad ogni servizio e prestazione anche e soprattutto sessuale, la nostra eroina un giorno cambia la propria vita.

Passeggiando disincantata lungo le rive di un fiume si imbatte in una cerimonia religiosa ortodossa a cui da secoli possono partecipare solo gli uomini, i quali debbono tuffarsi nelle gelide acque del fiume per recuperare un crocifisso gettatovi dal Pope. Senza una ragione particolare, ma spinta da una profonda ed irrazionale motivazione, Petrunya decide di gettarsi nel fiume e recuperare il crocifisso al posto degli uomini, mettendo così in discussione con un unico e pubblico gesto se stessa, una dogmatica tradizione religiosa e il patriarcato imperante.

La nostra eroina quotidiana diventerà presto un simbolo di riscatto per i media sensazionalistici ed attirerà su di sé l’odio dei conservatori, dovrà restituire il crocifisso ma prima di farlo avrà lottato, conducendo la propria rivoluzione personale e nel contempo collettiva. “Allora si può fare, si può mettere in discussione l’immodificabile! Io l’ho fatto e chi doveva darmi una lezione e rimettermi al mio posto non solo non l’ha fatto ma ha balbettato qualcosa sui valori e sulla tradizione ma nulla più” ha pensato la protagonista.

Mi viene in mente poi, in un contesto completamente differente, il film di Oliver Stone “Nato il 4 luglio” del 1989, film manifesto che narra la vera vita del reduce del Vietnam ed attivista civile Ron Kovic, interpretato da Tom Cruise.

Il film, fedele allo stile analitico, antiretorico e problematico di Oliver Stone, parla di una singolare rivoluzione, non quella antimilitarista per la pace ed un mondo migliore ma quella contro il sistema della propaganda bellica americana e dell’economia fondata sulle guerre di aggressione dei popoli: il protagonista all’ inizio del film è un liceale americano di famiglia repubblicana, imbevuto di incrollabili convinzioni patriottiche sulla necessità di difendere in armi il mondo dal comunismo, e sulla necessità di arruolarsi e sparare ai Viet Cong, come cantava Gianni Morandi tanti anni fa.

In guerra il protagonista, oltre ad uccidere accidentalmente un commilitone, tornerà in patria paralizzato dalla vita in giù e si dovrà scontrare presto con un sistema cui non è più utile: dopo essere stato usato dall’ esercito come testimonial per la campagna di arruolamento di nuove leve prive delle coperture familiari  ed economiche necessarie per sottrarsi all’arruolamento allora obbligatorio, verrà ricoverato in fatiscenti strutture sanitarie pubbliche senza fondi e verrà presto lasciato ad un destino di marginalità sociale (come il tenente Dan in Forrest Gump). Kovic a quel punto capirà l’inganno ma, diversamente da quello che si aspetta lo spettatore, non diventerà un pacifista integrale perché capirà che quel modo radicale di opporsi alla guerra non fa che alimentare la campagna nazionalista del governo, identificando un facile nemico sociale nel popolo di Berkeley.

Kovic invece deciderà di diventare uno public speaker, dando voce ai reduci traditi dal sistema, alle conventions democratiche. Il protagonista quindi, ha lottato, ha sofferto, ha cambiato prospettiva sulla società ma, nella determinazione che lo anima, è rimasto fedele a se stesso. In questo senso lo si può definire un rivoluzionario.

Può essere definito di un’eroina, anche se in un contesto profondamente conservatore, anche il personaggio di Margaret Thatcher interpretata  da Meryl Streep nel film “The Iron Lady” per la regia di  Phyllida Lloyd, anno 2011. Ricordate la scena, forse più alta del film, dove la futura leader dei conservatori inglesi si lamenta di non poter scalare il partito perché è una donna, ed il politico Tory, Airey Neave, interpretato da Nicholas Farrell,  che ne ha compreso la statura politica, riesce a motivarla dicendole “se queste sono le regole allora cambiale!”?.

Come poi non citare il biopic dedicato alla figura dello sceneggiatore hollywoodiano Dalton Trumbo nel film “L’ultima parola- la vera storia di Dalton Trumbo”, del 2015 per la regia di Jay Roach. Il film parla della storia vera della persecuzione maccartista degli sceneggiatori, attori e registi sospettati dal governo Eisenhower di avere simpatie comuniste, oppure altri film sul giornalismo e la libertà di parola contro la censura come “Good Night, and Good Luck” oppure “The Post”, oltre al magistrale “Tutti gli uomini del presidente”.

Anche il cinema italiano non è stato a guardare quando si parla di rivoluzioni individuali e collettive, sfidando i registi nostrani un certo atavico scetticismo diffuso nella società quando si parla di rivoluzioni nel nostro paese, conservatore, cattolico, controriformista e da sempre assai freddo verso i cambiamenti non solo e non necessariamente epocali.

Tra i film che parlano di questo tema merita di essere ricordato innanzitutto “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores, anno 1991. Il film, che assieme a Marrakech Express e Turnè, con l’appendice di Puerto Escondido, compone la trilogia della fuga, presenta un personaggio che tra tutti è il più invisibile ma nel contempo il più rivoluzionario e antieroico: l’attendente Antonio Farina, interpretato da Giuseppe Cederna, in uno dei sui ruoli più intensi.

Giovane, timido, senza idee precise e senza un passato cui tornare a seconda guerra mondiale finita, nascosto in un barile di olive, Antonio Farina decide di disertare, di rimanere su quell’ isoletta greca nella quale “ci hanno lasciato e noi ci restiamo”, sordo ai discorsi eccessivamente ottimistici  del tenente Nicola Lo Russo, interpretato da Diego Abatantuono sul cambiare il mondo e rifare l’Italia (“La situazione è ottima, c’è grande confusione sotto il cielo” dice Lo Russo nel vano tentativo di convincere l’amico a tornare a casa , uomo degli anni quaranta che anacronisticamente cita Mao e parla come un rivoluzionario degli anni ’70!). Decenni dopo il vero rivoluzionario, quello che aveva scelto per sé il futuro migliore ma non era riuscito a convincere altri che se stesso, sarà proprio il piccolo Farina, rimasto sull’isola nella quale avrebbe aperto un ristorante assieme all’ amata Vassilissa, interpretata dall’ attrice e modella, nonché Miss Grecia 1984,  Vanna Barba, sorta di Sabrina Ferilli ellenica ed ad oggi interprete di un premiatissimo sceneggiato intitolato M’agapas? (tradotto M’ami? di cui ho visto, senza capire nulla di neogreco io che col liceo classico pensavo a torto di essere poliglotta, solo alcune puntate, ma che mi pare di capire sia una via di mezzo tra Un posto al sole e Gli occhi del cuore) .

Lo Russo, disilluso dall’ Italia, deciderà in vecchiaia di raggiungere il vecchio commilitone perché “avete vinto voi ma non riuscirete a farmi diventare vostro complice”.

Alto  film italiano a suo modo rivoluzionario ed antieroico che merita una menzione è “Caterina va in città” di Paolo Virzì, anno 2003. Qui la rivoluzionaria è la giovanissima Caterina Iacovoni, interpretata da una allora esordiente Alice Teghil, che da Montalto di Castro nell’ alto Lazio, si sposta nella Capitale con la madre Margherita Buy al seguito di un frustrato ed eternamente insoddisfatto professore di ragioneria Sergio Castellitto stufo della provincia. Iscritta dal padre all’ ultimo anno di una scuola media frequentata dai figli dell’élite capitolina, la nostra inconsapevole rivoluzionaria verrà tirata per la giacca prima a sinistra dalla figlia di un noto intellettuale e scrittore organico al centro sinistra e poi dalla figlia di un sottosegretario del governo Berlusconi di allora (che alcuni identificarono nell’ alter ego di Gianfranco Fini), interpretato da Claudio Amendola, tutto preso dal difficile compito di far dimenticare all’ opinione pubblica le recenti e difficilmente dissimulabili origini fasciste del proprio partito (proprio come Fini!).

Caterina, aiutata da un giovane e belloccio coetaneo vicino di casa australiano ed outsider a sufficienza per esprimere un giudizio esterno, capirà di  frequentare false amicizie e, da vera rivoluzionaria di sé, dopo l’esame di terza media, l’ultimo momento della vita in cui si è ancora tutti uguali, deciderà di iscriversi al conservatorio di Santa Cecilia, facendo così della sua passione, il canto, il suo oggetto di studio ed  un possibile futuro lavoro fuori da schemi e percorsi universitari e lavorativi preimpostati. Eroici ed ideali fratelli maggiori, mamme, zii  di Caterina, sempre nella filmografia di Virzì ,sia Paolo che Carlo, possono essere considerati gli scalcinati musicisti ne “I più grandi di tutti”, Pietro Manzani protagonista di “Ovosodo” oppure Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti ne “La pazza gioia”.

Meritano poi di essere ricordati alcuni personaggi di film nostrani a loro modo rivoluzionari, più e meno conosciuti dal grande pubblico. Come non ricordare per esempio il personaggio di Enrico Fiabeschi, uscito dalla penna di Andrea Pazienza nell’ adattamento di Renato De Maria nel film Paz! del 2002.

E chi non ricorda il personaggio del Fiaba, interpretato da Max Mazzotta talmente legato al personaggio da dedicarvi da regista e protagonista un sequel intitolato “Fiabeschi torna a casa” nel 2013!

Studente del Dams quarantenne, fuoricorso, fuori fase, alla continua ricerca di un canna, amato nonostante tutto dalla fidanzata-mamma, improvvisatore di appelli universitari che studia l’esame incamminandosi alla volta dell’ esame (Il segno si decifra, l’apparenza mai!) e che all’alba, dopo una notte in compagnia delle sbarbe alla ricerca del fumo buono,  passa davanti ad una scritta emblematica su di un muro del centro di Bologna che recita “Mai voltarsi indietro, neanche per prendere la rincorsa”.

C’è poi il personaggio di Antò, il protagonista de “La guerra degli Antò” film di Riccardo Milani del 1999, musiche degli Avion Travel. Il film narra delle disavventure di quattro amici punk abruzzesi di Montesilvano in provincia di Pescara, Antò Lu Punk , Antò Lu Malatu, Antò Lu Zombi e Antò Lu Zorru, una vita controcorrente, tra derapate con il coupé 124 e la musica dei Dead Kennedys,  contro il perbenismo di una certa provincia italiana che dopo i diciotto anni ti vuole ubbidiente e mansueto, e animatori di un foglio ambientalista antisistema che contesta il servilismo locale verso l’ingegner Treves speculatore edilizio della zona. Iconica, per chi la ricorda, la scena in cui gli Antò, autoinvitatisi alla festa di compleanno delle gemelle Treves, figlie del palazzinaro, pisciano sul letto matrimoniale dei loro genitori, sollevando uno scandalo mediatico locale senza precedenti (“sono convinta che al mercato la roba me la fanno pagare di più per colpa tua!” esclamerà la sorella maggiore di Antò Lu Punk)

Antò Lu Punk (interpretato da Flavio Pistilli molto attivo nei tardi anni Novanta come coprotagonista di film come Auguri professore e nello stesso Paz! nel ruolo di Zanna), parte prima alla volta di Bologna per frequentare il Dams (anche lui!) e poi di Amsterdam alla ricerca di se stesso, per poi tornare in Abruzzo apparentemente sconfitto ma consapevole di aver levato le tende seppur per pochi mesi da quella realtà che non cambia mai a base di mare ventoso e deserto d’inverno e balli di gruppo d’estate all’ombra del Bar Zagabria  ed aver levato il proprio grido di protesta in coro assieme agli altri Antò contro il sistema, financo in faccia a Donatella Raffai a Chi l’ha visto in prima serata su Rai3!

In conclusione di questa carrellata, ritengo che, nonostante Brecht sostenga che è beata la nazione che non ha bisogno di eroi, il nostro tempo abbia bisogno non di muscolosi Thor o di campioni di parkour come l’Uomo Ragno, ma di tanti piccoli, problematici, disagiati ma necessari eroi del quotidiano che, senza essere preannunciati da colpi di scena o costruiti effetti speciali, sferrino quando lo ritengano necessario un calcio forte e ben assestato al sistema che li vorrebbe più magri, più palestrati, più biondi, più docili e meno pensanti oppure conducano delle vite frutto di libere scelte che prendono pochissimi like ed attirano le volgarità di qualche hater di passaggio, ma sono scelte personali, forti ed espressione di una identità non omologabile e non piegabile, di una personalità quotidianamente rivoluzionaria.

 

 

Paolo Marconi

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