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Il 1° dicembre è la Giornata Mondiale contro l’AIDS. Istituita nel 1988, diventa il primo giorno dedicato a livello mondiale alla salute simboleggiato da un drappo rosso incrociato. I primi casi di HIV vennero riportati più di 35 anni fa; da allora il virus ha colpito circa 78 milioni di persone uccidendone circa 35 milioni a causa di malattie legate all’AIDS, diventando una delle pandemie più distruttive della storia. L’organizzazione delle Nazioni Unite ha creato nel 1996 l’agenzia UNAIDS con l’obiettivo di porre fine all’epidemia entro il 2030.

Oltre i numeri e le organizzazioni governative, però, ci sono le persone che vivono queste statistiche quotidianamente sulla loro pelle e che esistono al di fuori delle infografiche. Mattia e Pasquale (nomi di fantasia, vogliono restare anonimi) hanno deciso di condividere il loro percorso e la loro lotta contro il virus e contro lo stigma sociale.
Entrambi i loro racconti sono pervasi da un senso di mancanza, di rabbia e sensi di colpa. Anche verso conoscenze mediche buone e pratiche attente, ma pur sempre limitate soprattutto riguardo alle diverse possibilità di prevenzione.
A questa fase, però, segue subito la reazione che prevale sullo sconforto. Pasquale ha immediatamente raggiunto le strutture sanitarie, ha raccolto informazioni sulla terapia antiretrovirale (ART) concentrandosi ‘sulle possibilità di sopravvivenza prima, e di qualità di vita poi’. Mattia ha una prospettiva diversa: ricorda la solitudine per cui ha sviluppato letteralmente un senso di terrore, ma trova conforto nella voce di una signora che lavora sotto casa grazie alla quale, in seguito, ha iniziato a cantare e studiare musica.

La cosa più difficile era gestire in modo equilibrato la mia voglia di parlare di ciò che mi stava succedendo, pur sapendo che dirlo in giro sarebbe stato potenzialmente pericoloso per la mia vita sociale, lavorativa e relazionale. Sarei stato discriminato, rifiutato e maltrattato. Lo sapevo, ed avevo ragione.

Il 1° dicembre serve anche a questo. Non è solo una giornata di prevenzione, di diffusione di conoscenze mediche di base e specifiche, ma anche l’ennesima denuncia contro una società in cui la disinformazione e l’ignoranza dilaganti, stigmatizzano i malati di HIV/AIDS.

In questo contesto, l’associazionismo ha svolto un ruolo positivo nelle vite di Mattia e Pasquale, che ringrazierà la sua associazione per tutta la vita per essere stata parte di una liberazione emotiva e per aver sciolto il ghiaccio dentro cui aveva trovato riparo.
La collettivizzazione di un’esperienza tanto travagliata ha prodotto, in questi casi, sensazioni positive: la voglia di cambiare le cose, una curiosità genuina e rispettosa verso le vite di altre persone e un senso di responsabilità verso la società tutta.
Mattia riflette su un punto che ritengo personalmente illuminante e fondamentale:

Conoscere le storie e le vite di altre persone mi ha aiutato a ridimensionare il mio dramma personale: dopotutto ero un maschio bianco, in Europa, nel 2010. Il che vuol dire che avrei ricevuto la mia assistenza sanitaria con relativa facilità. Che di HIV non sarei morto, per esempio.

Anche questo merita una riflessione più profonda, più attenta e quotidiana: non tutte le persone che entrano a contatto con il virus hanno le stesse possibilità, le stesse capacità e gli stessi strumenti per affrontarlo. La lotta a quest’epidemia non può essere efficace se tralasciamo queste differenze: non si possono risolvere problemi diversi con la stessa soluzione.

Famigliari, amici e partner rappresentano la rete di supporto che spesso determina buona parte del percorso, almeno iniziale, dopo la diagnosi e anche in questo caso, i nostri racconti divergono. Pasquale ha trovato conforto nelle amicizie e si prefissa di parlarne alla famiglia come obiettivo futuro. Mattia ha trovato in quest’ultima il primo ambiente sicuro, mentre con gli amici ha dovuto affrontare un percorso di crescita condivisa, di educazione sul tema, smontando uno per uno gli stereotipi, i pregiudizi e le paure legate a una conoscenza superficiale e anacronistica sul tema. Lo ricorda come un momento importante, ma di cui è difficile farsi carico quando si parla della tua salute personale.

Le relazioni sentimentali e sessuali costituiscono un ulteriore gradino. Sia Mattia che Pasquale riconoscono che siano cambiate profondamente; Pasquale di averle quasi irrazionalmente evitate. Il peso dello stigma è evidente, anche all’interno della comunità LGBT+ dove i meccanismi di colpevolizzazione delle vittime continuano a riprodursi: “è la stessa dinamica che nell’opinione pubblica italiana colpevolizza le vittime di stupro anziché gli stupratori” dice Mattia. È così che superficialità e ignoranza feriscono. Indirettamente, attraverso articoli giornalistici o servizi televisivi che “mi fanno male, come pugni a volte” dichiara Pasquale. O direttamente, quando, come Mattia, vieni minacciato di tortura e morte sui social network e le denunce istituzionali sono praticamente inutili perché il tuo caso viene archiviato e scopri che la giustizia non ha intenzione di occuparsi di te.
Al tempo stesso, però, esiste ancora la possibilità di costruire confronti positivi e rispettosi su questo tema, che possano essere d’ispirazioni alle pratiche collettive ed individuali, dentro e fuori il mondo dell’associazionismo LGBT+ e non.

La giornata del 1° dicembre per Mattia e Pasquale ha un grande significato: il ricordo di coloro che sono morti e hanno sofferto lungo la strada verso la sopravvivenza; la resistenza e l’orgoglio verso il futuro. Sentimenti che riguardano tutte e tutti, che possiamo diffondere rimuovendo le barriere che ci separano, senza individualizzare il problema dell’HIV/AIDS relegandolo a una questione di salute personale, acquisendo consapevolezza e conoscenze.
Dice Mattia: “quando leggo o sento ‘1 dicembre’ la prima associazione di idee che mi viene è: diamoci da fare!

 

Irina Aguiari

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