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Nonostante l’opinione contraria di molti, come quella dell’imam franco-algerino Ludovic Mohamed Zahed che ha addirittura celebrato matrimoni omosessuali, il trattamento che viene riservato ai soggetti LGBT nei paesi a maggioranza islamica è senza dubbio problematico, se non drammatico. Non solo da un punto di vista sociale, ma anzitutto da un punto di vista legislativo, visto che nella stragrande maggioranza di questi Paesi l’omosessualità è illegale. La repressione penale dell’omosessualità è infatti ampiamente praticata in tutti i Paesi islamici, salvo poche eccezioni, quali la Giordania, la Turchia, il Bahrein, l’Indonesia e di recente il Libano.

Nella cronaca internazionale queste realtà sono spesso dimenticate; anche, troppo spesso, da blog, quotidiani, e associazioni che si occupano di diritti LGBT: è forse molto più rassicurante parlare dell’ultimo riconoscimento di un matrimonio gay di un giudice dell’Ohio (battaglia comunque importantissima), che parlare di interi paesi dove milioni di omosessuali sono sottoposti a un vero e proprio “divieto di esistere”.

Gli ultimi eventi che attirano i media internazionali sono però quelli inerenti l’espansione, ideologica ancor più che geografica, dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. La politica del Califfato ha infatti acceso i fari dell’attenzione dell’opinione pubblica, non solo occidentale, sulla crudeltà riservata dallo stesso ai diversi, diversi uccisi in nome di una ideologia che vive del culto del dogma.
E così, insieme alle immagini dei giornalisti occidentali decapitati dal sanguinario Jihadi John, e insieme alle immagini degli attentati che hanno coinvolto l’Oriente come l’Occidente, abbiamo visto le immagini del trattamento riservato agli omosessuali siriani, iracheni, nigeriani e libici nelle terre occupate dai jihadisti. Vere e proprie mattanze a dire il vero tragicamente scenografiche: il 3 febbraio, per esempio, è salito agli onori delle cronache il video che ritrae gli estremisti spingere i presunti gay dagli alti palazzi delle città conquistate, e finire con la lapidazione coloro che, gravemente feriti, sopravvivevano alla caduta. Il 10 marzo, invece, è il turno della decapitazione in piazza, per diversi uomini ritenuti omosessuali e catturati all’interno della Provincia di Ninive. In molte occasioni, insieme ai jihadisti, a lapidare i pochi sopravvissuti vi erano donne e bambine. E non c’è da stupirsi: è vero ed evidente che in terre dove governano l’arretratezza e la povertà innanzitutto culturale e una concezione primitiva e fideistica della religione gli uomini del Califfo Al Baghdadi (che, tra l’altro, secondo i suoi detrattori, sarebbe egli stesso un omosessuale dedito all’alcoolismo) abbiano trovato terreno fertile per la propagazione dell’odio.

Queste stragi cruente, puntualmente videoriprese e documentate, hanno senza dubbio un obiettivo più mediatico che punitivo. L’ISIS in sé e per sé, molto più che organizzazione religiosa e politica, è infatti un’organizzazione che si nutre della battaglia mediatica, per diffondere un’ideologia intrinsecamente anti-occidentale, a prescindere dal discorso religioso. Ciò che ama l’Occidente è Male: quindi è male, ad esempio, anche se nulla c’entra con la religione islamica e col Corano, permettere ai reperti storici nei musei di restare intatti. Così come è male permettere agli omosessuali di esistere e di essere tollerati, come succede nei paesi occidentali.
L’uso della persecuzione omosessuale come strumento mediatico di acquisizione del consenso non è una novità storica: anche in Russia, ad esempio, Putin usa la questione omosessuale come componente importante della propria propaganda contro il “buonismo e il diritto-umanesimo democratico”, che porta a corruzione e decadenza morale nelle terre dell’Ovest.

Le stragi di omosessuali in Medio Oriente sono sempre state però ordinaria amministrazione, ma ora sono riprese e sono portate alla luce a causa dell’attenzione mediatica sull’ISIS. Gli estremisti islamici da tempo dilaniano uno stato fallito come la Somalia, imponendo la Sharia e la pena di morte per gli omosessuali nelle terre dominate. Esiste inoltre una vera e propria pena di morte per omosessualità in moltissimi paesi, di cui i media occidentali si ricordano in pochissime occasioni e per pura convenienza politica: è il caso ad esempio delle impiccagioni omosessuali in Iran, di cui si parlava moltissimo durante la Presidenza dell’antiamericano Ahmadinejad e di cui ora parrebbe che tutti si siano dimenticati. Per non parlare della Sharia accettata in tutte le Regioni a Nord della Nigeria, della pena di morte nel Sudan di Al Bashir, così come nel caos dello Yemen, nel Brunei, ma anche nella Mauritania e nell’Arabia Saudita di quei dittatori e re che all’ultimo G20 stringevano la mano a tutti i capi di Governo occidentali.

Talvolta la repressione omosessuale viene usata addirittura per risolvere questioni di politica interna, e per praticare altri tipi di repressione. È il recente caso, ad esempio, della Malaysia, ove l’omosessualità è punita con la reclusione, e ove il capo dell’opposizione all’ormai sempre più autoritario Najib Razak, Anwar Ibrahim, è stato condannato al carcere a cinque anni per sodomia, secondo molti commentatori, affinché il Primo Ministro potesse toglierselo di mezzo.

L’attualità a cui l’ISIS ci impone di confrontarci dovrebbe contribuire a risvegliare le coscienze di tutti i cittadini, a prescindere dalle appartenenze politiche o religiose. Ma con un’Europa sempre più reazionaria e in crisi politica, morale e valoriale, le cose si fanno difficili anche per chi dovrebbe dare l’esempio.

S. K.

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