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Avevo dodici anni quando ho capito che c’era qualcosa di diverso in me. Mi piaceva stare con i miei compagni di classe (non che amassi il calcio, la loro sola e unica preoccupazione…), mi piaceva andare a casa loro dopo scuola, condividere pensieri, sensazioni o stupidaggini di qualsiasi tipo. Mi piaceva quell’intimità, l’idea di essere vicino ai loro corpi, di essere a solo qualche centimetro da un contatto che profondamente continuavo a sperare, ma che non capivo bene cosa fosse. Ho sempre avuto un legame privilegiato con i ragazzi, anche alle superiori. Mi piaceva coltivare la nostra amicizia, e più il nostro rapporto diventava forte, più cresceva il mio desiderio di osare fare quel gesto, il cui solo pensiero mi riempiva di terrore e, allo stesso tempo, di una gioia infinita: un semplice e innocente bacio.

Eppure qualcosa mi bloccava. Dentro di me sentivo che c’era qualcosa di sbagliato nel desiderare un altro uomo, la sua pelle, le sue mani, il suo odore. Dall’altro temevo che se avessi osato varcare il limite mi sarei esposto a una reazione di rigetto, e forse, addirittura, mi sarei messo nei guai. Tutti allora avrebbero capito che ero un “frocio”.

Ho vissuto tutta la mia adolescenza portandomi dentro un’eccitazione continua, vivace e gioiosa, perché fondamentalmente quel desiderio così forte e irresistibile era… come dire… straordinario. In quegli anni – internet ancora non esisteva – ho letteralmente divorato tutta la letteratura “a tematica”: Oscar Wilde, Walt Whitman, Il Simposio di Platone, Il Voltapagine di David Leavitt, tutto Alessandro Golinelli, Maurice di Forster, Morte a Venezia di Thomas Mann, Pier Vittorio Tondelli, Pasolini, Edmund White, Ernesto di Umberto Saba, i racconti scabrosi e stranamente eccitanti di Sade, e tanti altri ancora. E poi, non c’era secondo nella mia giornata in cui non pensassi a lui, il mio migliore amico, ma anche, per me, il ragazzo per cui sentivo, non solo un’attrazione fisica, ma un sentimento più forte, il desiderio di essere solo con lui, di essere solamente noi due e tutto il resto del mondo fuori, di dormire con lui, di portarlo via con me. Ed era fantastico sognare ad occhi aperti. Ma è stato anche un dolore irreparabile.

Non riuscire a dire la verità sui miei sentimenti. Dovermi nascondere, vivere nella paura continua, dovermi controllare, mentire, dissimulare, piangere in silenzio e non avere nessuno per potermi consolare. Vivere tutti quegli anni rinchiuso nella solitudine della mia camera è stata un’esperienza che credo abbia lacerato qualcosa in me.
Quando alla fine, un po’ per caso, un po’ perché non potevo più andare avanti così, ho fatto coming out, ho capito che le mie paure non erano solo il frutto della mia fantasia. Ho capito che se non riuscivo a dire quello che sentivo, a confidarmi, o semplicemente a condividere, era perché, intorno a me, quella parola “omosessuale” suscitava reazioni violente: “mi fai schifo”, “avrei preferito fossi morto”, “hai rovinato tutto”, “devi curarti”, “sei malato”, e altre frasi del genere che forse ho preferito rimuovere.

Per fortuna, anche se la mia famiglia in un primo tempo ha reagito malissimo, i miei amici sono stati fantastici. Sì, certo, abbiamo parlato per ore, giorni, mesi. Ho dovuto spiegare tutto nei minimi dettagli, quello che sentivo, perché, come, dove, quando. Eppure questo mi ha aiutato a capire meglio anche me stesso. E oggi so che quel periodo in cui anche loro hanno scoperto qualcosa che ignoravano, di cui avevano sentito parlare sui giornali o in televisione (e chissà come!) ma che non avevano mai avuto modo di conoscere da vicino, li ha cambiati. In un certo senso, loro, che sotto le docce degli spogliatoi prendevano in giro quei ragazzi un po’ meno virili dando loro del frocietto o del finocchio, che mi chiamavano “culattone” perché avevano bisogno di esorcizzare il fatto che uno dei loro migliori amici era gay, loro che erano del tutto inconsapevoli della violenza sorda di quelle azioni e di quelle parole, oggi sono diventati ferventi difensori dei diritti LGBT.

Sono sicuro che l’aver condiviso con loro il mio vissuto, averli aiutati a capire che cosa significa sentirsi “diversi”, abbia contribuito a far cambiare loro mentalità, e so anche che loro hanno poi contribuito a cambiare la mentalità dei loro genitori, quella dei loro figli, dei loro amici e dei loro colleghi. Così come, quando finalmente ho potuto riallacciare i rapporti con la mia famiglia, anche loro sono riusciti a lasciare da parte i pregiudizi e ad ascoltare la verità della mia esperienza, del mio sentire, del mio desiderio. Sono cambiati radicalmente e oggi anche loro pensano che due persone dello stesso sesso dovrebbero potersi sposare, avere dei figli, essere considerati una famiglia come qualsiasi altra; e ora la pensano così anche i loro amici, i loro colleghi, i loro fratelli e sorelle, i cugini e i nipoti.

Da quando ho fatto coming out, il mondo intorno a me è cambiato. Le persone sono cambiate. Io sono cambiato. Sono diventato più sicuro, più fiero di me stesso, semplicemente più gaio. La forza e la vivacità di questo desiderio mi hanno portato a scoprire nuovi mondi, a fare nuove esperienze, a viaggiare, a leggere, a cercare persone che hanno fatto esperienze simili alle mie, ma anche persone completamente diverse, ma che sentivo vicine perché anche loro, in un modo o nell’altro, hanno vissuto sulla loro pelle l’insostenibile pesantezza della vergogna, della paura e della discriminazione.

Le cicatrici sono indelebili, e penso che nessuno meriti di subire questa sofferenza. La mia omosessualità, diceva qualcuno, è ciò per cui sono stato oppresso, ma è anche ciò che mi ha dato la forza di resistere e di lottare.

 

Massimo