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Parlare di AIDS oggi? Sembra un discorso di punizione risolta dalle pillole.

Prima era un Polo Nord e Sud contrapposti, un sogno di libertà perduta che non sapevi se situare nell’oriente del kamasutra o nel far west delle libertà senza regola. E oggi continua a trattarsi sempre di 2 opposti: le medicine che abbassano la carica virale fino a zero per farti arrivare alla sieronegatività da un lato e dall’altro l’ambaradan chiamato PrEP, la corazza chimica preventiva per farlo senza preservativo spensieratamente e senza troppe cautele. Nel mezzo c’è stata l’ecatombe, la Terza Guerra Mondiale nelle corsie dell’ospedale e poi è arrivato l’internet e la sua illusoria dimensione del “tutto qui e ora”. Tra questi estremi morali e temporali c’è stata la vita, la vita di tutti i noi.

Parlare di quando l’AIDS è arrivato invece è tutt’altra cosa. Si scopava nei parchi, nei giardinetti, nelle discoteche e nei gabinetti quando arrivò la notizia dei primi malati di qualcosa che colpiva la nostra comunità, o meglio che da lì cominciava a colpire l’umanità. Non aveva ancora nome e venne a parlarne a L’Altro Martedì Corrado Levi di ritorno da New York. Sapevamo tutti che il nostro gruppo umano era al centro di questo contagio, mai avremmo immaginato cosa ne sarebbe venuto fuori.

Con quanto scrivo farò una testimonianza personale che potrà non piacere e non essere completa: è la mia. Tanto personale che prenderò argomenti da un pezzo straordinario riproposto recentemente su internet, scritto da Gianni De Martino e pubblicato su Babilonia n.25, maggio 1985. Futuro anteriore: Gianni nel passato ha talmente continuato, completato arricchito quanto penso io oggi che non mi pongo neppure il problema di ricordare cos’è “mio” e cos’è “suo”. Mi sembra anzi un bellissimo esercizio di passaggio, elaborazione, testimonianza e informazione, quando un punto critico dell’omosessualità è proprio l’assenza del passaggio d’informazioni da una generazione all’altra.

Mentre la famiglia eterosessuale inevitabilmente trasmette valori, idee, convinzioni e percezioni nel tempo (che verrano modificate, ovviamente, ma resteranno anche tali e quali, purtroppo, nel tempo) gli omosessuali, variante imprevedibile e di utilità diversa nell’evoluzione umana sono ancora più illusi dei loro corrispettivi eterosessuali nel pensare di essere i primi, gli unici, quelli che risolveranno tutto. È il bello della gioventù, si sa, il suo diritto. Poi nel frattempo s’invecchia e si muore senza magari aver raccolto poco altro che una cippa di minchia ma va bene così. È il privilegio (hahaha) dell’homo sapiens. Come cantava un grande autore sottovalutato Pete Shelley, con assonanza evocata tra Homosapiens e Homosexual, “I’m the shy boy, you’re the coy boy, And you know we’re Homosapien too, I’m the cruiser, you’re the loser, Me and you sir, Homosapien too”.

Tornando al sesso, nei ’60 non c’erano ancora le parole per dirlo, nei ’70 le abbiamo trovate, nell’80 è cominciata quella che poteva sembrare la vendetta della natura per la “rottura del mare interno”. Questa “rottura del mare interno” è una teoria comparsa a un certo punto e che diceva che la promiscuità eccessiva degli “omosessuali” aveva rotto i limiti di scambio liquidi che la natura poteva sopportare. A me sembrava teoria ragionevole espressa persino in modo poetico, una specie di ragioneria del desiderio, mi sembrava che in effetti molti avessero esagerato. Ma intanto gli amici più vecchi cominciavano ad ammalarsi e morire. Alcuni davvero insospettabili (velate, presunti etero, perbene) morivano di tutto tranne che di AIDS: “arresto cardiocircolatorio” per esempio, per dire un eufemismo.

Io col virus sono stato fortunato: per l’esempio romantico e la ricerca di dignità (ricevuti dalla famiglia e dai libri del FHAR), negli anni del sex-express ho scopato poco e non trovavo fidanzato: ero “troppo intelligente” per l’omosessuale medio italiano che, se arrivava a tanto, andava in discoteca a ballare cose leggere. Ero cresciuto ascoltando Lou Reed e leggendo il FHAR, mi piacevano i Ramones o i Sex Pistols, probabilmente sembravo uno scassacazzo problematico. Forse non ero neanche tanto bello per gli standard vigenti e dovetti far esperienza prima in Francia (Bordeaux) poi a Londra per trovare un compagno valido. Eppure non c’era ancora internet o lo smartphone, si faceva più fatica, bisognava saper le lingue, ma soprattutto aver una determinazione e un culo (nel mio caso, il lavoro) che non finivano più.

All’inizio dell’epidemia non si andava più a ballare come prima nei locali gay (almeno io) e per un po’ di tempo siamo rimasti in casa. Per fortuna avevo finalmente trovato fidanzato italiano (incredibile: perché mi aveva sentito alla radio). Prima di me però lui era stato etero e dunque era poco disposto a stare in casa a cucinare la polenta dietro le tendine.

Non si andava più tanto alla Nuova Idea o al One Way ma si preferiva andare con i più giovani alle “one night” miste del Primo Piano Gallery, dell’Ippodromo e del Principe. La musica era diversa, non più disco ma new wave o house. E sì, “house”: avevamo trovato nuova casa effettivamente. Nei bagni (che erano più grandi di quelli monopersona del Plastic) guardavi lo stesso come ce l’aveva quello che pisciava al tuo fianco ma tutto finiva lì, apparentemente. Anche se nel giorno di qualche anno anno l’ecatombe prese piede anche in quel giro. Al One Way avevo visto spesso Moschino e una volta l’ho anche fermato perché mi era simpatico e mi piaceva il suo stile. Nel frattempo poi è morto (persino lui senza dire “AIDS” per salvare -mi dissero- il nome dell’azienda e i suoi dipendenti). Alcuni amici conosciuti al Plastic che lavoravano con lui e mi avevano invitato ai primi brunch milanesi (in case private, che lusso) erano già sieropositivi e ciao.

Voglio tornare ai primi momenti dell’epidemia e alla nostra anima.
Si stava sperimentando una libertà sempre esistita ma che fino ad allora andava nascosta: noi maschi siamo le puttane di noi stessi e ci piace farlo. Non abbiamo neanche il problema delle donne (fino ad oggi sempre riflessive e menose, hahaha), e i cosiddetti “etero” vorrebbero essere facilitati come noi, eccome.
Ci stavamo dando dentro insomma. E non sono neanche sicuro che una categoria clinica ottocentesca e limitante come “omosessuale” renda l’idea o spieghi bene il perché. Non è solo nevrosi e coazione a ripetere. La nostra promiscuità è addirittura una conferma profonda della maschilità, la sessualità come strumento di conoscenza, tipo i bonobo. Questa è stata infatti la potenza dietro la disco music prima e la house poi.
Anche quando un “antimoderno” come Pier Paolo Pasolini si ribellava al consumismo e alla divisione in categorie dei maschi non lo faceva solo per moralismo: sapeva che i valori di libertà erano molto più di quel che poteva essere sotteso all’etichetta spiritosa e riabilitante come “gay”. Aveva impossibilmente ragione.

Un fatto è certo, ahinoi: per moralisti, religiosi, paraculi e repressi, l’AIDS fu la manna dal cielo: potevano far coincidere la punizione con i pregiudizi e la loro micragnosità mentale. Reagan, Bush e altri farabutti (in Italia moltissimi) ebbero per alleato la paura della società di fare i conti con se stessa. Furono anni terribili, non avevamo più specchio dove guardarci. Ma la musica house, l’intelligenza di artisti come i Pet Shop Boys o persone come Riuichi Sakamoto che fece un pezzo con Holly Johnson dei Frankie Goes to Hollywood aiutò moltissimo. E dobbiamo a tutti i nostri fratelli e sorelle morti l’apertura della società progressista a noi perché la compassione (in senso laico naturalmente) ha sapute fare di più della condanna. Nel frattempo cominciavano a morire anche persone degli after-hours, dei brunch e delle one night , questa volta davvero amici e coetanei miei/nostri. A un amico chiesi come mai lo aveva fatto senza preservativo e mi rispose col sorriso del condannato che ride: “Fosse solo quello… troppe cazzate per trovare la strada. Poi abbiamo iniziato quando non serviva e per ultimo perché senza preservativo è più bello”. Come dimostra il successo dei film bareback e della PrEP, diremmo oggi. C’è anche un po’ di roulette russa e sindrome di James Dean. Ma c’è anche l’ostinazione a sopravvivere come raccontava qualche anno fa lo straordinario film “120 battiti al minuto”.

Nel frattempo che l’HIV faceva disastri mi capitò anche qualcosa di bello e spaventoso e inaspettato: essere ricoverato per Epatite A trascurata (maledetta pizza con le cozze) all’ospedale Sacco di Milano. Vedevo passare dal vetro della mia stanza (ero isolato anche io anche se con la A non servirebbe) le famiglie o i fidanzati che andavano a trovare i malati moribondi. Me ne ricordo uno bellissimo, barbuto, con un mazzo di rose rosse in mano. Io ascoltavo lì nel letto gli Erasure di “A Little Respect” e persi il concerto dei Kraftwerk al Rolling Stone di corso XXII Marzo. Pazienza.

Però poi sono vissuto fino ad oggi col mio fastidio per il preservativo ma anche la mia avversione per la promiscuità insensata. Credo che noi uomini che amiamo gli uomini abbiamo un ruolo speciale nel destino dell’umanità. Potrei forse dire “la variante favolosa”.

P.S. Qualche giorno fa ho sentito parlare alla TV del coronavirus (e al posto dei “gay” adesso ci sono i “cinesi”) mi è gelato il cuore. Mi spiace proprio per i cinesi anche perché lavorano troppo e così muoiono senza essersela neppure goduta e forse il loro governo ha fatto lo splendido alle spalle e a spese della popolazione.
E presento mia madre, milanese tutta d’un pezzo che sul piano dei comportamenti sessuali miei ha preferito fino a qualche anno fa un “don’t ask, don’t tell”. Mentre stiamo per mangiare e lei tira fuori l’olio dalla credenza commenta: “Che vergogna, quel razzismo. E sì che quelli lavorano e molto” (vera milanese). Continuo: “Ma un virus non ha preferenze, se deve arrivare arriverà e l’unica prevenzione possibile è l’attenzione o la prevenzione. Pensa quand’è capitato a noi. Non avevamo neanche a chi rivolgerci, ignorati o addirittura condannati e disprezzati”. Si è girata verso di me la ragazza che ha fronteggiato la polizia per difendere i diritti base dei lavoratori: “Credo proprio tu abbia ragione”.

 

Paolo Rumi

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