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Ho iniziato a fare militanza alla fine degli anni ’90, quando è iniziato il mio percorso di transizione e autodeterminazione.
Avevo 19 anni, il mio iter era appena cominciato ed ero alla disperata ricerca di persone che vivessero in prima persona la mia condizione di transgender*. Mi ero rivolta ad un associazione da poco fondata a Milano, “Arcitrans”. Oggi non esiste più. Organizzava degli incontri ogni due settimane, il sabato pomeriggio. All’epoca, Arcitrans era l’unica possibilità, perché non esistevano altri contesti associativi rivolti a persone transgender. La mia fortuna è che l’unica opzione allora possibile mi portò a conoscere donne straordinarie, come Deborah Lambillotte, attivista belga e allora presidente dell’associazione. Ci sedevamo, costruendo un cerchio, e iniziavamo a parlare di noi. L’avventura è iniziata così.

Conoscere donne transgender che non si prostituivano per vivere fu la prima vera “rivelazione” che quegli incontri mi regalarono. Eravamo alla fine degli anni ’90, e il binomio “transessuale = prostituta” era più che mai radicato nell’immaginario collettivo. Nel giro di pochi mesi, in quel cerchio ebbi modo di conoscere avvocati, architetti, impiegate, tassiste, insegnanti, sviluppatrici di software, operaie, studentesse. Questo rivoluzionò completamente la mia visione e il mio immaginario legato alla condizione trans*. Poter allontanare l’idea, pesante come un macigno e da me vissuta con forte angoscia, che per realizzarmi come donna avrei necessariamente dovuto prostituirmi, fu estremamente liberatorio e gettò le basi di una prima fondamentale rivoluzione.

In quel cerchio scoprii che non tutte le donne transgender volevano arrivare all’intervento di riattribuzione del sesso, come sempre avevo pensato; molte sceglievano di non farlo. Appresi anche dell’esistenza di molte transgender lesbiche, e la cosa all’epoca mi scandalizzò, lasciandomi senza parole (se solo avessi saputo allora che, da lì a pochi anni, anch’io mi sarei scoperta lesbica, probabilmente non ci avrei creduto!). Tutte le mie convinzioni sull’essere trans e sul percorso di transizione furono semplicemente sgretolate e spazzate via.

Quelle donne con cui mi sedevo in cerchio, il loro racconto unito al mio racconto, cambiarono completamente la mia prospettiva e la mia idea di futuro, portandomi alla decisione, nella quale le mie compagne di viaggio di allora mi sostennero con grande affetto, di iscrivermi in Università.
Quel cerchio ha avuto il potere di cambiare la mia vita.

Per queste ragioni ho avviato qui a Milano, ormai quindici anni fa, il primo gruppo AMA (Auto Mutuo Aiuto) rivolto a persone transessuali* e transgender in Lombardia e ho continuato a lavorare in questi anni in gruppi AMA in qualità di facilitatrice, prima presso l’associazione “Arcitrans”, successivamente in “Crisalide Azione Trans” e oggi al Circolo Harvey Milk a Milano. Esperienze certo diversissime sul piano associativo e politico, ma, almeno per quanto concerne l’esperienza dei gruppi, legate da un filo rosso.
Nel frattempo ho scritto e pubblicato libri (il prossimo uscirà a breve: Trans. Storie di ragazze XY, edito da Ugo Mursia Editore), ho contribuito alla realizzazione di videodocumentari sulla realtà transgender, ho fondato e presieduto associazioni, fatto parte di consigli direttivi di associazioni LGBT, rilasciato interviste allo scopo di informare e sensibilizzare l’opinione pubblica.
Essere un’attivista non è semplice, specie perché l’attivismo, se portato avanti a titolo gratuito e di volontariato, come nel mio caso, comporta il sacrificio di parte del proprio tempo libero, e questo è stato un problema per alcune delle compagne che ho avuto. Bisogna inoltre tener conto della visibilità che l’attivismo porta: se sei attivista, sei persona in qualche modo “pubblica”, e anche questo in passato è stato vissuto come un problema per alcune mie compagne. Ma trovo che vivere pensando soltanto a coltivare il proprio orticello sia tristissimo, almeno io la vedo così.
Se la vita ci ha regalato un bagaglio che può risultare utile in qualche modo per migliorare la vita di altri e il mondo che ci circonda, perché non utilizzarlo?
L’idea di poter in qualche modo incidere, anche attraverso la classica “goccia nel mare”, sul mondo che mi circonda, è per me galvanizzante e questo mi ha aiutata a superare i momenti difficili, soprattutto quando ero ancora “inesperta” e ingenua rispetto a certe dinamiche interne al movimento LGBT e, direi, comuni a tutti i movimenti politici.

Infatti il movimento LGBT non è la grande famiglia felice che io sognavo, dove tutti lottiamo per scopi comuni. Ci sono invidie e protagonismi anche tra noi. Se come attivista ti impegni e lavori bene, magari avendo qualche riconoscimento, inevitabilmente ci sarà qualcuno a cui questo darà fastidio e che cercherà di remarti contro. Queste cose mettono una tristezza infinita, ma esistono e succedono.

Poi, anche all’interno del movimento, esiste la transfobia.
Ho avuto a che fare con attivisti gay che mi hanno trattato con sufficienza per il solo fatto che sono una persona transgender. Altri che ritengono che le istanze trans dovrebbero stare fuori dal movimento, che dovrebbe tornare ad essere solo gay e lesbico. O veterofemministe che si permettono di delegittimare noi donne transgender affermando che non siamo donne. O ancora attiviste lesbiche sconvolte all’idea che una donna transgender possa essere lesbica a sua volta, che mettono ridicole barricate.

Non mi si fraintenda: la mia non vuole, ovviamente, essere una generalizzazione.
I casi che ho citato sono certamente minoritari, e lo sono sempre di più (per fortuna!). Le cose cambiano, stanno cambiando, grazie soprattutto al ricambio generazionale. Senza dimenticare che contribuire a cambiare le cose anche all’interno del movimento LGBT è comunque una forma di attivismo.
Credo che l’attivismo LGBT italiano sia una grande ricchezza, soprattutto quando penso all’importante lavoro delle associazioni LGBT e dei volontari che, 365 giorni all’anno, si occupano dei servizi di accoglienza, telefono amico e supporto alle famiglie. Questa ricchezza è spesso sottovalutata all’interno della stessa comunità LGBT. Quando sento dei giovanissimi dire che il lavoro delle associazioni è inutile mi arrabbio moltissimo. Li prendo da parte e dico loro che, prima di criticare le associazioni, forse è il caso di farci un salto, conoscere chi ci lavora e magari offrirsi di dare una mano.

Detto questo, credo che il movimento LGBT italiano debba affrancarsi da una certa autoreferenzialità e sviluppare potenti anticorpi contro i due mali che lo affliggono, che sono il primadonnismo e il protagonismo di alcuni. Queste persone, lungi dal lavorare per una causa o un ideale, promuovono soltanto se stesse, e credo che il movimento debba ancora imparare a prenderne le distanze.
Nonostante qualche pecca, comunque, essere attivista mi ha regalato tantissimi momenti belli, se li elencassi tutti potrei riempire pagine e pagine… Dal partecipante ad un gruppo di auto aiuto che mi confida che il gruppo ha cambiato la sua vita, alla giovanissima ragazza della provincia di Sassari che mi scrive dopo aver letto un mio libro ringraziandomi per averla aiutata a capirsi, alla grande emozione che mi ha dato in questi quindici anni salire sui palchi dei vari Pride e manifestazioni, ogni volta con la voce rotta dall’emozione.

Monica Romano

 

*Nota: per i lettori che hanno meno familiarità con i termini, abbiamo chiesto all’autrice di darci delle definizioni di alcune delle parole da lei usate nell’articolo.

TRANSESSUALE
La transessualità (o transessualismo) è la condizione di coloro che hanno un’identità di genere non corrispondente al sesso biologico.
La quinta edizione del DSM, il manuale per la classificazione dei disturbi mentali più utilizzato da medici, psichiatri e psicologi in tutto il mondo, riferendosi alla condizione transessuale, ha sostituito la dicitura “Gender Identity Disorder” (o “Disturbo dell’Identità di Genere”) con la dicitura “Gender Dysphoria” (“Disforia o disagio di genere”), facendo un importante passo avanti verso la depsichiatrizzazione della condizione trans. È infatti importante ricordare che gli attivisti e i movimenti transgender a livello internazionale rifiutano l’inquadramento psichiatrico della loro condizione, trovando adesioni sempre più consistenti nella comunità scientifica internazionale.

TRANSGENDER
Il termine “transgender” è stato coniato dalla militante statunitense Virginia Price negli anni Settanta.
“Il transgender si basa sull’idea che la totalità dell’esistente non sia riconducibile ad una logica binaria, contrapponendosi a quelle teorie definite “di mantenimento dello status sociale” che impongono concetti dualistici come positivo/negativo, giusto/sbagliato, buono/cattivo, bianco/nero e, appunto, maschio/femmina e uomo/donna” (Fonte: Velena H., Manifesto del transgender,1994).
I movimenti e gli attivisti/e transgender a livello internazionale hanno deciso di abbandonare gradualmente il termine “transessuale”, termine coniato dal mondo scientifico per definire, normare e inquadrare nella patologia la condizione trans, in favore di “transgender”, termine politico coniato dal movimento.

TRANS
Abbreviazione di “transgender”.

 

L’autrice, Monica Romano, gestisce il sito: monicaromano.it