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Non mi sono mai considerato un militante. La parola stessa, militanza, mi è lontanissima. Comporta adesione a un pensiero, a un’intenzione, a un credo collettivo e niente mi fa più paura e spavento di questo. Ho cinquant’anni, ho vissuto momenti della storia italiana nei quali la militanza aveva un significato forse molto più radicale di come la si può intendere ora, ma ora come allora sono allergico al gruppo, per quanto piccolo o vasto esso possa essere. Il mio agire etico e politico, il mio agire pubblico come privato, è sempre semmai stato orientato al mettere in dubbio il pensiero condiviso, sollevare il dubbio laddove un’opinione trovasse troppi aderenti.

Abbiamo sempre tutti un po’ di torto, pensare d’avere pienamente ragione è sempre un abbaglio: questo io credo; certo non vuol dire recedere, pensare che si debbano a priori accettare le opinioni o i pensieri dell’altro, ma bisogna cercare sempre di “vedere” l’altro. Non sento vincoli di fedeltà, anzi li ho in sospetto; credo che poco o niente di quel che pensiamo sia merito nostro e non invece dei giorni in cui viviamo; penso che spesso parliamo a vanvera, che questo sia inevitabile e che questo sia bellissimo, ma che questo soprattutto debba ricordarci costantemente che solo l’ironia su di noi, su quel che facciamo, su quel che diciamo, sia la vera arma antifascista che abbiamo a disposizione. La militanza richiede spesso una ridicola serietà che non mi avrà mai fra i suoi adepti. Uno così come me sulle barricate non è gradito affatto.

Perciò non ho mai cominciato a militare e perciò non mi sono mai unito a un gruppo, a un collettivo, a un’associazione o a altro. Io non faccio per loro, loro non fanno per me.

Nel 2013 sono stato sul palco del Festival di Sanremo ad annunciare il mio matrimonio col mio fidanzato, superando ogni caratteriale ritrosia, per via di un video che abbiamo girato fingendo a fatica di essere disinvolti. Sono andato al TG5, ho scritto un libro usando la mia biografia (e quella di mio marito) per farne occasione di un discorso politico, l’ho presentato in giro per l’Italia e dirigo da anni un sito di critica editoriale e letteraria e che segnala e recensisce solo testi LGBTQ. Questo fatti sono molto strani e certo hanno cambiato la percezione che le persone hanno di me e di riflesso quella che io ho di me stesso come figura pubblica, anche se fatico a adeguarmici. In qualche modo del tutto imprevisto, le cose che ho fatto fanno di me un militante.

Mio marito ed io abbiamo due gradi diversi di diffidenza a mostrare la propria vita in pubblico e, naturalmente, come in ogni coppia, questo è stato oggetto di contrattazioni e accordi. C’è un discrimine che continuamente si muove fra testimonianza di sé e avversione all’esposizione del proprio ego e della propria figura intima. Se parliamo di come abbia reagito il mondo relazionale e affettivo direi che non vi è stata alcuna difficoltà, anzi quasi tutti erano contenti/e di poter dire “quello lì sul palco di Sanremo è mio fratello, figlio, nipote, zio, cugino, amico, cliente, conoscente…”, per noi è stato ed è più problematico.

Impegnarsi in campo politico o sociale credo possa essere anche terribilmente scoraggiante. L’Italia è in questi anni un paese dal quale fuggire. Non darei torto a nessuno che dicesse me ne vado. Perciò per non far danni, per non pagare il prezzo della frustrazione e non farlo pagare agli altri io direi che ci si debba impegnare se piace, se diverte, non per altri motivi. Ognuno deve trovare, se ha voglia, la propria chiave e soprattutto il proprio ambito temporale e sociale, per essere militante, per fare del proprio agire un gesto chiaramente politico. Io credo molto ai gesti del singolo, al farsi specchio e esempio, al rigore individuale.

Se non fossi stato sul palco dell’Ariston, se non ne avessi fatto il pretesto per scrivere un libro, né io né nessuno mi penserebbe in termini di militanza. C’è un unico evento, bello o brutto, è sempre quello, il Festival. Certamente il sentimento -per me molto sconcertante- di gratitudine che moltissime persone allora manifestarono -e ancora ora, a tre anni di distanza (ma tu sei quello che era a Sanremo!!!)- nei nostri confronti per essere stati su quel palco, così come lo siamo stati, ecco, certamente quel sentimento ci colse inatteso e fu bellissimo, lo è ancora. Non saprei davvero dire cosa quella nostra partecipazione abbia mai significato per chi ci vide (spesso mi chiedo come avrei reagito io se mi fossi visto), vorrei saperlo meglio di quel poco che posso immaginare.

Fu anche una cosa che per certi versi si mosse da sola e della quale noi stessi siamo stati attori e spettatori. Una volta deciso, il mio fidanzato ed io, di sposarci, abbiamo anche pensato che davanti a uno Stato che ci negava di farlo pubblicamente di fronte a amici e parenti nel nostro Comune, l’unica cosa dignitosa da fare era rendere il nostro matrimonio il più pubblico possibile e questo per noi volle dire girare un video da far diffondere un po’ su fb per raccontare quel che stavamo per fare; pensavamo che sarebbe stato un po’ visto e poi fine, il nostro pensiero si fermava lì. Certo non ci aspettavamo che fosse visto da centomila persone in una settimana e che tutti i giornali lo avessero in home in quei giorni e che addirittura ce ne fosse eco oltreoceano; certo ancor meno ci saremmo aspettati di essere chiamati a riproporlo in forma ridotta durante la serata inaugurale del Festival di Sanremo, la notte prima di partire per New York. Ma così fu. È stato più un senso del dovere a portarci sul palco di Sanremo che una scelta autonoma. Era un’occasione straordinaria che non si poteva sprecare, anche se non l’avremmo mai scelto.

Non so se e cosa faremo in futuro, se ci saranno altre occasioni per manifestare e testimoniare; se sposto lo sguardo all’Italia e a ciò che si muove in ambito militante fatico a dirne, ne so troppo poco, per le succitate ragioni, per poter rispondere. Certo quel che mi viene da pensare è che dovremmo solo ascoltare e seguire chi ha meno di vent’anni o i prossimi, quelli e quelle che ora ne hanno dieci, persone che non hanno memoria di quel che questo Paese è stato in questi ultimi decenni, persone il cui passato non li trascini indietro, che sappiano tanto del mondo e poco dell’Italia, che vedano l’evidenza dell’assurdità del livello culturale del dibattito politico di questo paese e che spazzino via tutti con l’arroganza della loro giovinezza.

Federico Novaro