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«I nostri telespettatori ci hanno segnalato una piacevole sorpresa dal mondo del telegiornalismo! Vediamo di che cosa si tratta!».

Sorride divertita, Michelle Hunziker, donna di spettacolo di navigata esperienza e attualmente impegnata a presentare il tg satirico Striscia la notizia al fianco di Gerry Scotti.

Sorride divertita, e sorriderei anch’io se il video che la spigliata conduttrice sta per mandare in onda e a cui presta allegramente la sua voce non fosse l’ennesimo esempio di come svilire in un colpo il decoro e la professionalità di un altro essere umano.

Vittima del “simpatico” siparietto è Giovanna Botteri, corrispondente Rai di grande esperienza e con un curriculum di tutto rispetto alle spalle.

Ma non è di questo che il servizio di Striscia vuole parlare.

Il vero centro d’interesse sono infatti «l’immutabile mise» e la chioma poco curata della giornalista.

Che, forse in risposta ai messaggi di scherno dei suoi detrattori, avrebbe finalmente deciso di prendere la «grande decisione» di lavarsi i capelli, «presentandosi agli spettatori del TG1 più bella e superba» che mai.

In conclusione di video, non poteva mancare un fotomontaggio della corrispondente immersa in una vasca da bagno versione cartoon.

Il battesimo del balsamo è finalmente avvenuto.

Si levino cori di lode per questo inaspettato incontro tra Botteri e lo shampoo.

Pazienza se dall’altra parte dello schermo qualcuno poi ci resterà male.

Pazienza se quelle battute all’apparenza innocue e innocenti riporteranno a galla dolori terribili che ancora oggi si fa fatica a dimenticare.

 

Umiliazioni

«Da adolescente portavo i capelli lunghi. Alla maggior parte della gente il mio stile non piaceva per niente. Spesso venivo deriso, c’erano ragazzi che mi chiedevano se fossi un maschio oppure una femmina. Nella scuola superiore che frequentavo c’era un professore, non della mia classe, che ogni volta che mi incrociava nei corridoi faceva di tutto per insultarmi. Mi fermava, mi toccava i capelli e scherzando con altri ragazzi lì attorno diceva: “Che bella chioma da ragazza, che hai!”. Io non riuscivo nemmeno a rispondere. Correvo semplicemente in classe. E ogni volta scoppiavo a piangere».

Tengo tra le mani il telefono con i messaggi di Dhevan e l’unica cosa che penso è che in questo momento vorrei essere lì con lui, ad abbracciarlo.

Pur non conoscendolo personalmente, è come se riuscissi a percepire la sua tristezza.

Nessuno dovrebbe mai subire questo genere di oltraggi.

Le sue parole mi martellano l’anima.

 

Dolore

In ciascuno di noi, io credo, esiste una piccola parte di spirito fortemente contaminata dal dolore. Scavando nella memoria si trovano frammenti di tristezza, di terrore, di sgomento, di indignazione, di rabbia, di paura, di smarrimento.

Il corpo, il nostro corpo, quell’involucro di carne che di noi contiene l’essenza, subisce spesso grandi attacchi. Dagli altri, da noi stessi, da parole solo apparentemente inoffensive e pacate. Lo racconta molto bene Dhevan, che con una sincerità davvero ammirevole mi accompagna per mano attraverso i suoi ricordi, guidandomi attraverso la tristezza e il senso di solitudine che ha provato quando per strada o nei corridoi i ragazzi più grandi lo chiamavano “ricchione”, lo accerchiavano per chiedergli se fosse maschio o femmina, lo minacciavano anche fisicamente, lo umiliavano e deridevano i suoi bellissimi capelli, lunghi e colorati. O quando si è scontrato con il disprezzo e la cattiveria di chi in teoria avrebbe dovuto proteggerlo ed educarlo.

«Una volta una mia professoressa mi ha costretto ad andare in bagno a lavarmi gli occhi. Li avevo segnati con un po’ di matita rossa. Mi ha intimato di levarmela di dosso. Secondo lei non era una cosa adatta a un maschio. Durante una gita invece la preside del mio istituto mi ha guardato con disgusto. “Io un figlio così non lo vorrei mai!” ha esclamato a voce alta».

 

Similitudini

Man mano che la nostra conversazione procede, io e Dhevan scopriamo di avere in comune molto più di quanto ci saremo mai aspettati.

Le nostre sono storie simili, vicinissime, quasi speculari.

Entrambi siamo stati ragazzini tranquilli, educati, rispettosi, andavamo bene a scuola (lui sicuramente più di me, ma anche del mio rendimento non è che si possa proprio lamentarsi), forse eravamo solo un po’ troppo diversi e lontani dall’immagine che gli altri si facevano di noi, non incontravamo il loro modo di vedere la vita. In definitiva, eravamo agli occhi del prossimo risultavamo sempre troppo strani.

Ora come ora mi viene quasi da ridere… una risata amarissima… pensa un po’, gli dico, pensa un po’ che coincidenza…! Tu venivi preso in giro per i tuoi capelli lunghi, io perché i miei non erano abbastanza in ordine, troppo ricci, troppo crespi, ma che cos’hai lì sulla testa?! Sembra un blob, un gomitolo attorcigliato, una montagna di arbusti, una collina, una massa informe, un’enormità, una matassa!

«Ma perché non te li piastri?» mi domandavano a ogni piè sospinto. «Perché non ti sforzi di essere un po’ più carina? Perché non ti trucchi? Perché non ti vesti mai da femminuccia? Perché non ti metti mai le gonne? Vestita così sembri un maschiaccio! Su, avanti, sforzati! Sii un po’ più elegante!».

Non è stato facile affrontare medie e superiori.

Anch’io, come Dhevan, sentivo addosso una pressione fortissima. Anch’io come lui mi rinchiudevo in me stess@, incredul@ e prostrat@ da tutti quei consigli e commenti che la gente si ostinava a ripetere “per farmi del bene”, “per aiutarmi”, per mostrare a me pover@ reiett@ quale fosse la strada giusta da prendere, quella sana, corretta, normale e soprattutto etero-normata.

Abbiamo cominciato a prendere coscienza della nostra omosessualità e bisessualità fin da ragazzini, anche se a differenza di Dhevan io ci ho messo molto più tempo a trovare il coraggio di accettare me stess@ e di fare coming out.

Lo sapevo e lo tenevo nascosto. Per paura, vergogna, per cercare di proteggermi, per non sembrare ancora più un caso umano.

Non potevo, non volevo che mi giudicassero.

Soprattutto non volevo dare dei dispiaceri alla mia famiglia.

C’erano già tanti problemi, eravamo e siamo in tanti, bisognava pensare a studiare e a mettere da parte qualche soldo, senza contare che temevo il loro giudizio. Avevo paura. Non volevo che si infuriassero

Al pari di Dhevan, ho quindi deciso di affrontare tutto in solitudine, facendo di testa mia, chiudendomi a riccio, sperando che alla fine i brutti momenti passassero e che qualcuno si accorgesse di quanto ero fragile e spaventat@.

Andavamo avanti così, tenendoci tutto dentro, silenziosi e persi nel nostro mondo, incapaci di scrollarci di dosso la tristezza. A casa non parlavamo con nessuno. Bisognava arrangiarsi. Fingere che andasse tutto bene. Stringere i denti. Farsi accompagnare a scuola da qualche adulto. Anche il tragitto per arrivare all’edificio poteva sembrare più tortuoso che scalare una montagna.

 

Consapevolezze

Siamo cresciuti così, io e Dhevan. Lontani geograficamente, ma vicinissimi nelle esperienze che oggi ci raccontiamo. Si dice che le persone entrino nella tua esistenza per un motivo. Io grazie a lui ho potuto ripensare, rimescolare, riguardare al passato. Alle cose brutte come a quelle belle: abbiamo avuto entrambi alti e bassi, ma bisogna ammettere che ci siamo comunque sempre rialzati. Magari a fatica, ma ce l’abbiamo fatta.

«Non saremo quello che siamo se non avessimo vissuto certe esperienze! Dobbiamo essere orgogliosi di noi stessi! Abbiamo superato dei grandi ostacoli!».

Annuisco lievemente: c’è una saggezza quasi ascetica nelle parole di Dhevan, che forse in una vita precedente è stato un essere umano votato alla contemplazione e alla spiritualità, come sembra suggerire anche il nome che si è dato.

«In hindi Dhevan significa devoto, ma anche divinità» mi spiega dall’altra parte dello schermo, e io davvero penso che un appellativo migliore non potesse toccargli.

Di colpo mi tornano in mente le parole di un ragazzo che ha condiviso con me un felice periodo della mia vita, l’unico che sia peraltro riuscito nella titanica impresa di farmi parlare abbastanza correttamente nella sua lingua madre.

«Tu n’es pas une créature de ce monde, ma chère, mon amour. Tu es simplement un ange» (Tu non sei una creatura di questo mondo, amore mio. Tu sei semplicemente un angelo).

All’epoca gli risi in faccia. Mi sembrava una scemenza dettata dall’eccessivo sentimento.

«Tu es totalement fou, mon cher!» («Tu sei completamente matto, caro mio!»).

Lui ha scosso la testa e mi ha preso per mano senza dire niente.

Di parole in fin dei conti ne avevamo già pronunciate abbastanza.

 

Rinascita

Ho riletto i messaggi di Dhevan.

Una, due, mille volte, fino quasi a ricordarli a memoria, fissandoli nella mente e provando a immaginare il suo volto e la tristezza che da ragazzino lo attanagliava.

Poi ho ripensato a me stess@, all’essere goffo e sgraziato che ero, a tutte le umiliazioni che ho subito, e mi sono dett@ ok, sai che c’è? E’ andata! Non devi più pensare a quelle cose orribili, è finita, si è concluso tutto, basta!

Mi sono guardat@ allo specchio e ho accarezzato i miei capelli, gli stessi che per anni gli altri e io stess@ hanno disprezzato.

Li ho toccati, ho sentito la loro morbidezza, li ho fatti scorrere tra le dita, li ho tenuti stretti tra le mani. Li ho ringraziati per essere ancora qui, sulla mia testa, non vi siete mai arresi, belli miei, siete ancora qui, non vi maltratto più, crescete finché vi pare. Ormai arrivate a metà schiena, dice la nonna quando vi pettina: meglio così! A parte qualche spuntantina leggera non ho la benché minima intenzione di tagliarvi!

Crescete e mostrate al mondo quanto siete belli!

Anche Dhevan è d’accordo con me: a lui i capelli afro piacciono da matti.

E a me piacciono i suoi, lunghi, corti, neri o colorati che siano.

Mi piacciono i suoi capelli e mi piace ancor di più la sua anima.

Sono sicur@ che quando ci incontreremo diventeremo davvero amici.

Forse un pochettino lo siamo già.

D’altronde, per chi come me crede nel destino, è impossibile non pensare che da qualche parte ci fosse scritto che un angelo imperfetto e un essere divino un giorno si sarebbero incontrati per parlare di se stessi e del proprio vissuto.

 

Il coraggio di essere sé stess*

Ce ne vuole tanto, di questi tempi.

Ce ne vuole tantissimo, e Giovanna Botteri l’ha dimostrato.

Agli attacchi che le sono stati mossi – e che lei stessa ha definito stupidi e inconsistenti – ha reagito con coraggio, forza e grandissima dignità.

Dalla sua parte si sono schierati davvero in tantissimi, di lei e della sua vicenda si è parlato nei quotidiani nazionali, nei periodici di moda e costume e nei social network di famosi avvocati e attivisti.

Menzione d’onore spetta a mio avviso al bellissimo post di Riccardo Onorato, che con delicatezza e sensibilità offre una visione chiara e precisa della vicenda e delle sue implicazioni.

Nel mio piccolo, non posso far altro che lodare la meravigliosa e umanissima dichiarazione rilasciata da Botteri in merito alla sgradevole vicenda che l’ha vista coinvolta suo malgrado.

«A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo , minimo, come questo.

Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere e far discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne».

Di donne e, mi permetto di aggiungere, anche di uomini e di individui come me, di genere non binario. Perché davvero il mondo ha bisogno di persone che sappiano guardare alle altre con disponibilità e rispetto. E che non si facciano più problemi di fronte a un ragazzo con i capelli lunghi, un@ non binary con i capelli ricci o una giornalista che si mostra in tv coi capelli un po’ spettinati. Lo dobbiamo alle generazioni future, ma anche ai ragazzini indifesi e bersagliati di critiche che un tempo io e Dhevan siamo stati.

 

Nicole Zaramella

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