Skip to main content

Stefano Ferri, giornalista e scrittore, ha ricevuto nel 2004 il Premio Hilton per il giornalismo business, e nel 2006 il Premio Italia for Events per la stampa turistico-congressuale. I suoi romanzi sono stati tradotti e distribuiti in 14 Paesi. Da anni è attivo nel sostegno ai diritti civili dando pubblica testimonianza, in televisione e nei giornali, della sua condizione di crossdresser (termine con cui si definiscono quanti indossano abiti del sesso opposto).

 

Monza, 27 luglio 2020, ore 15.40

Avevo dato appuntamento a un’amica alla Villa Reale per un drink e quattro chiacchiere. Parcheggiata l’auto all’interno della Villa, mi sposto a piedi all’esterno e percorro tutto il viale (saranno appena duecento metri) verso l’ingresso principale.

Prendo la cuffia e decido di ascoltare un po’ di musica.

Attacco una playlist anche se so che l’avrei fatta durare poco perché, ripeto, sono pochi passi.

Beh, non immaginavo che sarebbe durata pochissimo anzi nulla, perché dopo tre metri una volante della polizia, che m’era appena sfrecciata accanto, fa retromarcia e si avvicina a me.

Il poliziotto seduto a destra tira giù il finestrino e mi fa spicciamente il gesto d’avvicinarmi.

Sono già passato per queste situazioni, ma stavolta è diverso perché Emma, mia figlia, non è con me. In quasi vent’anni da crossdresser, è la prima volta che la polizia italiana mi ferma senza avere per lo meno la scusa di verificare che la bambina non si trovi insieme a un pervertito.

Stavolta, insomma, la verifica era sul sospetto di perversione fine a se stesso, quasi che la sola vista di un uomo vestito da donna faccia scattare l’ipotesi di pericolo pubblico.

«Un documento, per cortesia».

Lascio perdere la cuffia e cerco il portafoglio. Lo apro, estraggo la carta d’identità, gliela passo.

L’agente, prendendola, mi chiede: «Abita da queste parti?».

Non capisco il senso della domanda ma rispondo. «No, sono di Milano».

Tizio annuisce e chiude il finestrino. Apre sul suo cellulare un’app che evidentemente consente la verifica immediata delle pendenze penali e digita il numero del mio documento.

Ci mette un po’, a un certo punto mi pare pure che smadonni. Non sento nulla perché il finestrino è su. Alle spalle della volante si forma una coda d’auto. Con disciplina (per quanto sappia, il bipede che azzarda clacsonare alla polizia deve ancora nascere) sterzano a sinistra e sorpassano, gli occhi tutti addosso a me.

Passano due minuti infiniti. Il finestrino si abbassa. «Buona giornata», mi dice tizio riconsegnandomi la carta d’identità.

In una frazione di secondo la mia testa s’affolla di pensieri rabbiosi. Mi chiedo perché, e mi viene voglia di chiederlo anche a lui. Solo che stavolta ho paura. Io, che ho – giustamente – sempre trattato i poliziotti da pari a pari, cioè da cittadino a cittadino, adesso mi faccio venire il latte alle ginocchia. Temo che a una sola domanda, per quanto educata e remissiva, scattino le manette. Insomma, le notizie di Piacenza le abbiamo lette tutti, no?

Non potrò mai verificare se erano timori mal riposti o meno. Resto dell’idea che le forze dell’ordine siano composte in maggioranza da gente perbene. Ma non riesco a giurare aprioristicamente che chi ferma un crossdresser, per il solo fatto che è un crossdresser, perbene sia.

Dunque me ne vado, sapendo che qualcosa, da oggi, nel suo piccolo è cambiato.

Il karma “se sono da solo non mi fermano”, che durava da 18 anni e soprattutto agli inizi mi ha aiutato non poco, non esiste più.

Sembra cosa da nulla ma vi assicuro che non lo è. Bisogna trovarcisi, nei panni di uno indebitamente considerato “diverso”, per capire.

Allego questa foto di repertorio che mi ritrae putacaso con gli stessi abiti che portavo oggi.

Giudicate voi dove stia l’indecenza: se addosso a me o negli occhi di chi mi ha guardato.

 

 

Stefano Ferri

Leave a Reply