Skip to main content

Sorprendentemente stare confinati tra le mura di casa pare sia diventato faticosamente malagevole per molti di noi. Mentre aumentano video di flashmob musicali dai balconi. Volontari e volontarie che colmano la precarietà dei servizi per il cittadino, al di là della sua residenza, religiosità e della sua provenienza. Medici e infermieri che curano i malati accaventiquattro. Slogan che ci invitano a fermarci e goderci la famiglia; che siamo uniti civilmente, sposati, separati, studenti conviventi, nonni, nipotini o genitori, con animali domestici o senza; qualunque sia la famiglia in cui siamo isolati ora, resta banalmente logico ed evidente che la conoscevamo già.

Qualche anno fa sono stato recluso in un carcere. Ero il nuovo arrivato in una cella con altri quattro. Non conoscevano il mio nome né io i loro. Il mio comodo materasso, il quinto in quella stanzetta, aveva posto tra la porta blindata d’ingresso e quella del bagno. Mi era sempre piaciuto dormire per terra. Tre sgabelli di legno e tre armadietti. Un tavolo da quattro e un telecomando per tutti e cinque. Ero di troppo ma non per mia scelta. Michele mi ha rivolto per primo la parola, era napoletano e si sentiva. Io per loro ero quello turco perché meglio turchi che nordafricani!

Qualcuno batte con una mazza sulle sbarre; arriva la colazione: acqua al sapore di caffè, acqua al sapore di latte e pane raffermo. L’acqua non mancava mai fortunatamente, nemmeno il pane. Un’ora dopo ritorna il randello a farsi sentire sempre più vicino. Il corridoio del braccio vocia schiamazzando“Aria! Aria!”. Porte aperte e fila indiana. Tutti al cortile cementato: lo stesso che si vede dalla finestra della cella. Giri giri giri per evitare di socializzare ma non puoi evitare di origliare “ma chi è? Perché è qui? Di dov’è?”. Con il tempo ho imparato che la tua provenienza determina la tua inclusione, tanto quanto la tua esclusione. Gli angoli sommersi dalla luce del sole mattiniero sono sempre ingombri e non c’è verso di starci senza socializzare. Io che non ero un criminale, non dovevo conoscere nessuno. Io ero diverso e migliore.

Mezzogiorno è quando finisce l’ora d’aria. Manganello sulle sbarre. Pranzo e Tg5. Il trambusto con l’arrivo della posta poi la siesta. Alcuni avevano il lusso di ricevere visite dai familiari e molti altri come me, anche se sono peggiori di me, non li vede mai nessuno. Tra le cose inconcepibili c’era la mania di guardare Forum su Rete4: una distrazione dai propri problemi? Ricerca del dramma? Un rispecchiarsi nelle storie altrui? Sta di fatto che alla fine di questo programma torna la guardia ad esercitare il potere del suo manganello proclamando l’ora d’aria pomeridiana. Mi piaceva uscire dopo pranzo, era la mia rivincita quotidiana sugli spigoli soleggiati esclusivi dei veterani. C’era sole ovunque.

Lasciandoci condurre come una mandria all’ovile, magicamente si sintonizzano le tv su “pomeriggio 5” alla caccia di normalità. Arriva la cena e si imbrunisce la luce proveniente dalla finestra. Non ricordo di cosa parlavamo quando eravamo in cella ma ricordo bene le liti per la scelta del canale televisivo da guardare la sera: genere di film, attualità o documentari. Una cosa certa è che Le Iene si aggiudicava sempre il consenso maggioritario.

Un anno scandito da questi rituali monotoni e ripetitivi. Giornate prevedibili e poco sorprendenti. Una quarantena durata quattro stagioni.

In quell’anno di carcere non ricordo di aver visto un medico o un infermiere. Non che non mi fossi mai ammalato. Non ho mai ricevuto una visita da parenti. Non ho potuto telefonare ad amici e amiche anche perché non ne avevo. Non ho sentito la voce del mio compagno anche se viveva a meno di 10 km di distanza da me. Non ho mai potuto allungare la mano fuori dalla finestra perché sbarrata con una rete adatta solamente a far transitare le mosche e le zanzare. Non avevo Netflix. Non avevo un divano. Non avevo un secondo cuscino da stringere. Avevo due libri con pagine mancanti. Avevo voglia di toccare un albero. Voglia di vedere l’orizzonte. Avevo il desiderio di mangiare una pizza. L’unico che mi abbracciava era il mio avvocato che ogni mese mi portava da firmare dei documenti. Puzzava sempre di canna.
Ho imparato a giocare a briscola. Ho imparato a stare fermo. Ho imparato che, con i nostri errori e privilegi, possiamo essere la forza l’uno dell’altro. Ho imparato che non sono migliore di nessun* anche se per lo stato resto un criminale.

 

 

Leave a Reply