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Di loro si è spesso parlato come della minoranza più perseguitata al mondo. Costretti a fuggire dalla Birmania – paese che non li considera propri cittadini e li sottopone a continue violenze e persecuzioni – sono continuamente rifiutati da Thailandia, Malesia ed Indonesia. Chi ha l’occasione di lasciare la Birmania si trova a vivere in situazioni di indigenza nei campi profughi allestiti al confine con il Bangladesh o ad essere sfruttato e maltrattato negli altri paesi del sud-est asiatico. Sulla loro situazione, la luce intermittente dell’attenzione mediatica mondiale si accende e spegne ad intervalli irregolari: per anni sprofondano nell’oblio, poi – soprattutto in occasione di eventi eclatanti come gli scontri del 2012 o la crisi dei migranti nel 2015 – si trasformano rapidamente in oggetto d’attenzione per i giornali internazionali ed in manifesto di battaglie civili per i paladini dei diritti umani.

Da decenni – e senza soluzione di continuità – i Rohingya sono gli indesiderati del sud-est asiatico: nessuno vuole accoglierli, nessuno riconosce loro alcun diritto.

Il dibattito relativo alla loro provenienza è tuttora in corso. Alcuni storici ritengono che i Rohingya vivano nello stato birmano del Rakhine da centinaia di anni, altri sostengono che siano arrivati soltanto in epoche più recenti.

Attualmente, i Rohingya che vivono in Birmania sono oltre un milione. Nella regione precedentemente conosciuta con il nome di Arakan costituiscono un’importante minoranza etnica e religiosa, essendo di fede musulmana. Lì convivono con la maggioranza buddhista di etnia rakhine. I rapporti tra i due gruppi etnici sono tesi: frequenti sono gli episodi di intolleranza e gli scontri violenti che comportano l’intervento repressivo delle forze armate.

La posizione del governo birmano è sempre stata la stessa: si sostiene che i Rohingya siano immigrati bengalesi di fede musulmana giunti in Myanmar in tempi recenti, dopo l’indipendenza dei due paesi. Come conseguenza di ciò, nel 1982 la legge sulla cittadinanza voluta dal generale Ne Win esclude i Rohingya dalla lista dei gruppi etnici della Birmania, negando loro la cittadinanza nonché qualsiasi altro tipo di diritto, rendendoli così una popolazione senza stato. La loro è una condizione critica ormai da anni. Senza andare troppo indietro, l’ultimo rapporto del World Food Programme dell’ONU parla di oltre 80.000 bambini Rohingya a rischio malnutrizione.

Vittime di discriminazioni di base etnica e religiosa, privati di qualsiasi diritto e sovente internati in campi profughi dalle condizioni igienico-sanitarie pessime, i Rohingya prendono la via del mare. Il mare delle Andamane e lo stretto di Malacca si sono trasformati nel teatro degli orrori del dramma.

Negli ultimi mesi, diverse organizzazioni internazionali hanno ricominciato ad occuparsi della questione. La speranza della comunità internazionale era che l’arrivo al governo di Aung San Suu Kyi, simbolo della resistenza al regime militare e premio Nobel per la pace nel 1991, avrebbe comportato un cambio di direzione nel trattamento dei Rohingya. Idolatrata come simbolo di battaglie civili e politiche contro il regime dittatoriale birmano e sostenuta durante gli anni della propria prigionia, Suu Kyi ha ampiamente deluso le aspettative. La figlia del generale Aung San ha sempre cercato in ogni modo di evitare l’argomento e – quando costretta a rispondere – ha negato ogni tipo di violazione di diritti umani contro la minoranza musulmana dello Rakhine.

Tuttavia, l’ultima emblematica decisione di non lasciare entrare una missione ONU destinata ad indagare sulle violazioni dei diritti umani in corso ha lasciato perplessi. Per il ministro degli esteri Zeya, “non vi è motivo di farli entrare” proprio perché nulla sta accadendo.

Da quando si trova de facto a capo del governo birmano – de iure, infatti, non le è permesso a causa di alcune norme costituzionali – la carismatica leader birmana ha dimostrato un certo pragmatismo nei confronti della questione rohingya: in ottica di realpolitik Suu Kyi ha ben presto messo da parte le speranze di un’utopistica ricongiunzione etnica e ha preferito continuare a mantenere un silenzio che – agli occhi dell’intera comunità internazionale – risulta quasi una tacita connivenza. Realisticamente, per il governo birmano un’aperta difesa dei diritti dei Rohingya implicherebbe un’ulteriore frammentazione dei già fragili equilibri etnici del paese. Il Rakhine e la Birmania intera sono a larga maggioranza buddhista e tutte le minoranze musulmane – con i Rohingya in posizione particolare – non sono ben viste. In uno stato in transizione verso una democrazia consolidata, l’argomento etnico rischierebbe quindi di far esplodere la polveriera.

Pertanto, chi si aspettava una presa di posizione da parte della paladina dei diritti umani ha dovuto fare i conti con una realtà molto diversa. Gli equilibri politici in gioco impediscono a Suu Kyi – anche qualora lo volesse (ed a riguardo è tutto da vedere) – di ergersi a difesa dei diritti delle minoranze. Negli ultimi mesi in particolare, la leader birmana è stata più volte accusata di aver deluso le aspettative ed ha ricevuto un’esortazione pubblica da parte di altri premi Nobel per la pace che in una lettera aperta l’hanno invitata a prendere una posizione netta nei confronti di una questione che possiede tutti i crismi per trasformarsi in un “possibile genocidio”.

In assenza di un’apertura, però, i militari – che da sempre in Birmania svolgono un ruolo di prim’ordine nello scenario politico – possono continuare a sentirsi legittimati a reprimere, stuprare e costringere all’esilio forzato una popolazione senza stato e senza terra se non quella dei campi profughi, costantemente rimpallata da una costa all’altra del sud-est asiatico e vittima di un dramma silenziato anche da chi per anni è stato uno dei simboli internazionali della difesa dei diritti umani.

 

Gianmarco Maggio

fonte: TheBottomUp

 

The Bottom Up

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