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Discorrendo di salute, di diritti e, in un certo qual modo, della sopravvivenza della specie umana – almeno quella che nel portafoglio custodisce la carta d’identità italiana – non possiamo ignorare quella che, a sentire alcuni, sembra essere una grande minaccia a questa stessa sopravvivenza: l’arrivo di persone dall’estero. E non pensiamo a persone qualunque, ma in particolare a migliaia di uomini, donne e bambini che approdano sulle nostre coste senza documenti, senza un visto e dopo aver portato a termine un viaggio a dir poco impervio che ne ha messo a rischio la vita.

Sono 83.731 queste persone, o almeno quelle che sono arrivate in Italia a partire dal mese di gennaio al mese di luglio 2017. Un numero esiguo se paragonato al richiedenti asilo ospitati, per esempio, in Uganda (740.000) oppure in Giordania (2,7 milioni), o addirittura in Pakistan (1,6 milioni). La retorica dell’invasione ha pervaso il discorso pubblico, mediatico e politico, tuttavia non sussistono dati ed informazioni sufficienti per poterci credere. L’associazione Carta di Roma, per rendere ancora più chiara la dimensione della non invasione, ha provato a far confluire, virtualmente, tutti i rifugiati presenti in Italia in un unico luogo: non riempirebbero nemmeno metà del Circo Massimo di Roma.

Certo, finché sentiamo parlare sempre e soltanto dei migranti come un gruppo omogeneo e alieno, sarà difficile confutare le tesi di chi nutre la paura confondendo ancor più i contorni di un fenomeno naturale. Così come è del tutto naturale che persone che provengono da aree diverse portino con sé un patrimonio immunitario e malattie in Italia poco diffuse. Si tratta di un presupposto sufficiente per temere un contagio collettivo?

Il Ministero della Salute già nel 2011, anno della cosiddetta “Emergenza Nord Africa”, pubblicò un protocollo specifico che dettava le linee guida per la profilassi immunitaria e la sorveglianza sindomica degli immigrati in arrivo dalle coste dell’Africa settentrionale. Si faceva riferimento a 13 sindromi e ai rispettivi sintomi da osservare con particolare cura e si sottolineava l’importanza di segnalare in maniera puntuale all’autorità di riferimento qualsiasi malattia infettiva. Sei anni dopo i dati raccolti dall’Istituto Nazionale per la Medicina delle Migrazioni e della Povertà (INMP) dimostrano che i casi di allerta ed allarme non sono stati poi molti come, forse, ci si aspettava. Al contrario, emerge un peggioramento progressivo delle condizioni di salute del migrante una volta arrivato in Italia, conseguenza di povertà e disagio sociale più che dell’eredità della migrazione in senso stretto.

Secondo quanto dichiarato dalla direttrice dell’ufficio europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità, Zsuzsanna Jakab, e quanto confermato da un report di Medici per i diritti umani, la percentuale di migranti la cui salute è compromessa all’arrivo in Italia è compresa tra il 2 e il 5%. In particolare, queste persone soffrono di patologie dell’apparato cardiocircolatorio, mentale o legate alla gravidanza, ma nella maggior parte dei casi i problemi più gravi sono le conseguenze di incidenti e torture.

Le malattie infettive che tanto spaventano (HIV, tubercolosi, scabbia, sifilide) sono, dunque, marginali.
Per quanto riguarda il virus dell’HIV, ciò avviene perché nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente la percentuale di sieropositivi è generalmente bassa. Molti, piuttosto, si ammalano una volta arrivati in Europa. Infatti uno studio realizzato in Francia dimostra come tra il 35 e il 49% dei migranti provenienti dall’Africa che vivono con HIV hanno contratto il virus lontano dal paese d’origine.

La Tubercolosi, in Italia, non è mai stata debellata del tutto, sebbene tra il 1990 e il 2014 i casi siano drasticamente calati da 25,3 ogni 100.000 abitanti a 6. In questo contesto, tra le persone non nate in Italia, i casi sono aumentati, ma in maniera non proporzionale all’aumento della popolazione straniera in senso assoluto: detto in altre parole, il numero di persone malate cresce a ritmo molto inferiore rispetto al numero di persone sane. Come sottolinea Claudia Torrisi su OpenMigration, “è vero che la condizione di immigrato agevola il rischio di contrarre la malattia: secondo l’Oms il pericolo dipende sì dall’incidenza della Tbc nel paese d’origine, ma anche dalle condizioni di vita e lavoro nella nazione di immigrazione, dall’accesso ai servizi sanitari e sociali.”

Parallelamente, le condizioni di vita e di viaggio rappresentano un concreto fattore di rischio anche per quanto riguarda la scabbia. La psicosi che si è diffusa nel 2015, anche in seguito ad alcuni post pubblicati da Beppe Grillo sul suo blog nonché da alcune dichiarazioni di Matteo Salvini, è totalmente infondata: in primo luogo, i dati epidemiologici raccolti segnalano che solo il 10% delle persone sbarcate nel 2015 avevano contratto la malattia; in secondo luogo, la scabbia è una malattia della pelle che prolifera in condizioni igieniche molto precarie e in luoghi affollati, ma è anche una malattia che si cura molto facilmente, in pochi giorni, con una pomata. Nessun elemento, dunque, consente di urlare all’emergenza sanitaria.

È corretto, piuttosto, sottolineare che la popolazione immigrata presenta alcuni fattori di rischio peculiari per queste patologie infettive, determinati, da un lato, dalla diffusione nel proprio paese di provenienza di HIV e tubercolosi, dall’altro dalle condizioni di vita e di lavoro insalubri sia nei paesi di transito, pensiamo alla Libia, sia una volta giunti in Europa. Si tratta di elementi che ci aiutano a comprendere quale siano le condizioni di salute dei migranti, ma non ci forniscono nessun elemento per ipotizzare contagi di massa in Italia né qualsivoglia altra emergenza sanitaria che decimerà la popolazione. Come denuncia Medici senza frontiere, “il costante focalizzarsi dell’attenzione pubblica sugli allarmi di salute, ha come unico risultato di creare un clima di razzismo e discriminazione e distoglie da quella che è la vera emergenza, ossia la corretta gestione dell’accoglienza e la necessità di definire politiche di immigrazione che siano rispettose della dignità umana e non mettano a repentaglio la vita delle persone.”

Passa in secondo piano, infatti, ogni sforzo mirato a garantire il diritto alla salute, seppur sancito dal diritto internazionale dei diritti umani, dai trattati europei, dalle carte costituzionali, per chi sbarca sulle coste italiane. Basti pensare che sulle navi della Guardia Costiera l’assistenza sanitaria è assicurata da un’équipe formata da un medico e un infermiere che si occupano, fino allo sbarco in porto, di centinaia di persone che presentano criticità di tutti i tipi. In molti soffrono della “malattia dei gommoni“, come il dottor Pietro Bartolo ha definito le lesioni causate dal viaggio a stretto contatto con le taniche di carburante. Le donne hanno seri problemi con il parto e portano sul corpo i segni di terribili violenze subite durante il percorso.

I segni della migrazione, poi, non si leggono soltanto sul corpo delle persone. Spesso, infatti, migranti e richiedenti asilo portano con sé “ferite invisibili” come psicosi, depressione, disturbi post traumatici da stress (Ptsd), disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, cognitivi e una maggiore tendenza alla somatizzazione. Un’indagine svolta nel 2016 da Medici senza frontiere con un campione di operatori sociali e psichiatrici in Italia conferma che il migrante, oggi, si presenta in Europa spesso con una condizione psicologica già compromessa, con una ridotta capacità di resilienza e privo di un progetto migratorio chiaro. Alle stesse conclusioni sono giunte anche Caritas e Fondazione Migrantes che evidenziano la presenza sul territorio di piccole realtà che, lentamente, stanno affrontando queste rinnovate esigenze con strumenti specifici e personale preparato. In particolare, preoccupano gli effetti della tortura: il dolore e lo stress provocati sembrano essere, nel tempo, più distruttivi e disabilitanti delle conseguenze prettamente fisiche.

Chi approda in Europa è a tutti gli effetti una persona che è sopravvissuta, ma come evidenzia il dottor Giancarlo Santone, dirigente medico di psichiatria del Dipartimento di Salute Mentale della ASL di Roma nel rapporto “Le dimensioni del disagio mentale nei richiedenti asilo e rifugiati”,la fuga salvifica dei migranti forzati si accompagna ad una costellazione di perdite multiple, ed è più delle volte preceduta da drammatici avvenimenti traumatizzanti. Lasciare il proprio paese e andare verso la salvezza significa pagare un prezzo elevato: la rottura dei legami familiari (la genitorialità bruscamente interrotta), i sensi di colpa, la sindrome da sopravvissuto, la perdita del ruolo sociale. (…) La fuga è anche di per sé un evento traumatizzante in quanto vissuta in condizioni di insicurezza, di precarietà e di rischio. Talvolta i traumi vissuti durante la fuga (traumi migratori) possono essere più gravi di quelli premigratori.”

Se volessimo, dunque, rispondere alla domanda: i migranti portano le malattie? Potremmo dire che sì, le portano con sé, sulla propria pelle e nel proprio vissuto. I loro corpi portano i segni delle torture, delle violenze, di un viaggio in condizioni precarie, di un’accoglienza che non sempre riesce a garantire gli standard minimi di sicurezza e salute, della povertà figlia del disagio sociale e della marginalità, del razzismo e della discriminazione che sono conseguenza anche della disinformazione su temi come questi e che generano allarmismo gratuito ed ingiustificato.

Legare a doppia mandata l’arrivo di persone dall’esterno alla diffusione di malattie a cui non si è più abituati fa presa sulla popolazione, un’ottima strategia politica per solidificare il consenso e rafforzare la frattura sociale che vede da un lato “noi”, sani, forti, autoctoni e bianchi, e dall’altro “loro”, malati, pericolosi, stranieri e neri. Peccato si tratti, ancora una volta, di una costruzione artificiale non supportata da dati che, al contrario, ci raccontano un’altra storia. L’OMS, infatti, ci svela un segreto:i problemi di salute di rifugiati e migranti sono simili a quelli del resto della popolazione, mentre il rischio di importazione di agenti infettivi esotici e rari è estremamente basso e quando si verifica riguarda viaggiatori regolari, turisti oppure operatori sanitari, più che rifugiati o migranti.” Insomma, anche di fronte al medico siamo tutti uguali. La differenza è, forse, che i cittadini possono pretendere che il proprio diritto alla salute venga tutelato, i migranti no.

 

Angela Caporale

fonte: TheBottomUp

 

The Bottom Up

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