Skip to main content

“Per molti siamo una band politicamente engagée, in verità scriviamo i testi delle nostre canzoni per parlare di quello che ci accade attorno. Non pensiamo a noi come una band con un’agenda politica, ma nel mondo Arabo ciò che scegli di trattare e ciò che decidi di tacere si traduce subito in un sentimento politico”. Così si presentano i Mashrou’ Leila, ovvero Haig Papazian al violino, Hamed Sinno alla voce, Hibrahim Badr al basso, Carl Gerges alla batteria e Firas Abou Fakher alla chitarra. Incontriamo la band indie-pop libanese a margine di uno dei concerti della tournée internazionale, jeans e t-shirt nere, occhiali tondi e dalla montatura grossa, risvoltini, potrebbero essere i componenti della band hipsterina della porta accanto, invece vengono da Beirut, Libano e fanno musica per raccontare la loro realtà, tra luci e ombre.

Sabato 28 novembre hanno presentato il loro quarto album, Ibn El Leil, in un concerto a Londra, dopo un tour che ha portato il loro Arab indie-pop in giro per tutta l’Europa, il Medio Oriente e gli States. Eppure il “progetto per la notte”, come potremmo tradurre Mashrou’ Leila, è nato qualche anno fa da una jam session come mille altre all’American University della capitale libanese. “All’inizio non pensavamo a nulla di particolare, racconta Firas, sarebbe stato carino trovarsi una volta a settimana a suonare assieme, giusto per fare una pausa. Da un momento all’altro ci hanno chiamati ad aprire un concerto e non avevamo nemmeno un nome! Suonavamo di notte, ecco quindi Mashrou’ Leila”. Dalle jam improvvisate ne è passato di tempo e, grazie all’ingresso nella band di Sinno e della sua magnetica vocalità, il progetto è cresciuto musicalmente. Contemporaneamente sono cambiati gli argomenti dei testi. Se siete in cerca di una band pop che racconta in musica amori felici, tristi, disperati, meglio abbandonare qua la lettura.
Spesso definiti come la “voce delle primavere arabe”, ai Mashrou’ Leila questa definizione sta stretta. Eppure si parla di politica, del controllo della società, della convivenza tra religioni diverse, di omosessualità, di immigrazione. E tutto ciò in una lingua, l’Arabo-libanese, poco diffusa sulla scena musicale internazionale e verso un pubblico, quello di tutto il Medio Oriente, per cui molti di questi temi sono ancora oggi un tabù.

Il nuovo singolo, Maghawir – ovvero il nome che viene dato all’esercito -, è una risposta diretta ai, sempre più frequenti, attentati che hanno colpito la capitale libanese e le cui vittime sono state spesso compagnie di giovani in bar e locali. Partendo da alcuni fatti di cronaca, nasce un’ironica lista di “cose da fare nella notte di Beirut”, che si trasforma ben presto in una denuncia della facilità con cui si arriva ad episodi di violenza, della semplicità con cui è possibile ottenere un arma in Libano, dell’assurda morte di giovani mentre si trovano nella loro città a divertirsi. La scelta, poi, di una musica ballabile non fa che spingere a chiederci se la violenza stia diventando qualcosa di normale, se stia diventando un’altra cosa su cui possiamo ballare, un nuovo elemento del paesaggio notturno della città.
Dicevamo, critiche alla società libanese, colpevole con la sua corruzione di tarpare le ali ai giovani, come viene cantato in Wa Nueid: “Digli che siamo ancora qui in piedi, digli che stiamo resistendo / Digli che abbiamo ancora occhi per vedere, digli che non abbiamo fame”. Ma anche un forte impegno, in prima persona per il cantante, nella battaglia per il riconoscimento dei diritti LGBT in Medio Oriente. (Sì, lo so che ho appena detto che non parlano d’amore, mi correggo non parlano d’amore convenzionale) La struggente Shim el-yasmine (Odora il gelsomino) racconta proprio, con dolcezza e sensibilità, una storia d’amore tra due uomini:

I would have liked to keep you near me
Introduce you to my parents, have you crown my heart
Cook your food, sweep your home
Spoil your kids, be your housewife
Smell the jasmine
And remember to forget me

Temi che hanno attratto ben presto le critiche degli ambienti più conservatori della società libanese tant’è che gli abitanti di Zouk Mikail, una cittadina vicina a Beirut, hanno veemente protestato contro un concerto della band. Un esempio tra molti. La reazione dei fan è arriva pronta sulla Rete, dove i cinque ragazzi libanesi hanno un ampio seguito: “I social media sono importanti per tutti, oggi. A noi piace mantenere un forte controllo creativo su tutto ciò che facciamo: ci occupiamo delle copertine degli album, delle fotografie, delle interviste. Per questo abbiamo deciso, ci raccontano, di usare i social in maniera molto diretta. Non sopportiamo quando ti accorgi subito che c’è la mano di un esperto di marketing dietro ad un profilo, per questo abbiamo scelto di gestire il più possibile i nostri account da soli personalmente”. Una scelta che li ha portati a farsi conoscere ben oltre i confini libanesi e a conquistare più di 300.000 followers su Facebook, migliaia di visualizzazioni dei video su YouTube e un tour internazionale sold out.

Nelle tracce risuonano riferimenti eclettici: tra jazz, elettro-pop, rock e tarab gli strumenti, il violino di Haig e la voce profonda di Sinno si fondono in un mix orecchiabile in cui la musica tradizionale araba è un’eco. Proprio la tradizione è stata oggetto di una campagna social lanciata dai Mashrou’ Leila: con #occupyArabpop hanno acquistato notorietà, ma sono riusciti a spiegare il senso delle loro scelte musicali. Tocca ancora a Firas spiegare in che senso: “Eravamo abbastanza ambiziosi per poter dire che era tempo di smettere di associare il Pop Arabo all’immagine della tipica super star araba, che canta la musica tipica, sempre con le stesse immagini, sempre con gli stessi video. Volevamo presentarci, una volta per tutte, come un’alternativa”. Un’alternativa che li ha portati a conquistare una fetta di pubblico in Europa, dove spesso il mondo arabo viene visto con sospetto e paura. Si presentano con la loro musica, uguale in tutto il mondo, e la loro voglia di suonare ciò che gli piace, raccontare le loro storie, lottare per le cause in cui credono.

 

 

Angela Caporale

fonte: TheBottomUp

 

The Bottom Up

Leave a Reply