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Qual è il trattamento dell’omosessualità nel mondo? Dalla più feroce repressione (nei due terzi dei Paesi africani e in buona parte dell’Asia, dove i “colpevoli” rischiano di incorrere in pene che vanno da semplici ammende fino alla detenzione o addirittura all’esecuzione), fino al riconoscimento pieno o parziale dei diritti rivendicati dal movimento LGBT, passando per situazioni di vuoto legislativo (come per l’Italia) e per Paesi in cui la persecuzione non prende di mira i rapporti omosessuali, ufficialmente tollerati, ma piuttosto la cosiddetta “propaganda” (basti pensare alla Russia). E dove non arrivano la legge e la polizia, intervengono le famiglie, spesso zelanti nel difendere, anche con spargimento di sangue, l’onore macchiato da figli, fratelli e nipoti. In numerosi contesti sociali, il silenzio, l’invisibilità e la clandestinità sono d’obbligo, come ha saputo brillantemente illustrare il giornalista e fotografo francese Philippe Castetbon, che nel suo libro Les condamnés. Dans son pays, ma sexualité est un crime (H&O, 2010), ha affiancato alle testimonianze di uomini gay, provenienti dai vari Paesi che criminalizzano l’omosessualità, le immagini dei loro volti, debitamente e variamente occultati.

Ecco perché sempre più persone LGBT scelgono di abbandonare il loro Paese d’origine in cerca di un contesto sociale più aperto e più sicuro nel quale esprimere liberamente la propria identità omosessuale. Se il fenomeno della migrazione dei diritti riguarda anche, per certi versi, i nostri connazionali, che cercano altrove un riconoscimento e delle possibilità (in termini di genitorialità per esempio) negate dalle nostre istituzioni, ci si potrà stupire nel constatare che proprio l’Italia, fra i Paesi membri dell’UE, si pone all’avanguardia nell’accoglimento delle richieste di protezione internazionale presentate per motivi legati all’orientamento sessuale. Una conquista, questa, che è stata resa possibile anche grazie al lavoro svolto in Parlamento da storici attivisti del movimento LGBT, come Franco Grillini e Gianpaolo Silvestri: quest’ultimo, all’epoca senatore per il gruppo Verdi-Pdci, presentò durante la XV legislatura un emendamento alla legge comunitaria sul diritto d’asilo, sostenuto da una maggioranza bipartisan, che si proponeva di garantire la difesa del cittadino straniero che

“pur provenendo da un Paese sicuro, possa essere perseguito (non necessariamente in base ad una norma penale, ma comunque in base a disposizioni o atti concreti, oggettivamente individuabili) a causa di un fatto o comportamento che nel nostro ordinamento non è perseguibile (in quanto non costituisce reato)”.

Il successivo decreto legislativo n. 251/2007, recante l’attuazione della direttiva 2004/83/CE del 29 aprile 2004, avrebbe poi chiarito che si considera meritevole di status di rifugiato o di protezione sussidiaria anche chi lo richiede

“per gravi discriminazioni e repressioni di comportamenti non costituenti reato per l’ordinamento italiano, riferiti al richiedente e che risultano oggettivamente perseguibili nel Paese di origine”.

 

Alcuni esempi

Come risulta dal report del progetto “Fleeing Homophobia”,1 tradotto in più lingue, anche in questa materia le disparità fra le prassi vigenti nei vari Paesi europei sono abissali, e l’adozione di pratiche comuni sembra lontana. Si tratta, in primo luogo, di misurare l’effettiva pericolosità della vita nel Paese d’origine e, di conseguenza, la necessità di una protezione. Relativamente a questo aspetto, Paesi per altri versi più avanzati del nostro si rivelano assai poco sensibili. L’esistenza di disposizioni che puniscono le attività sessuali consensuali fra persone dello stesso sesso non è ritenuta condizione sufficiente per il riconoscimento dello status di rifugiato in Spagna, dove, fatte salve rare eccezioni, solo ad attivisti LGBT è stata accordata questa forma di protezione; in Bulgaria, dove è necessario fornire prove di una precedente persecuzione; o ancora in Norvegia, dove la Corte d’appello ha negato l’asilo a un gay iraniano ritenendo che le limitazioni subite dalle persone omosessuali in quel Paese non possano essere considerate persecuzioni nel senso definito dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Altrove, la presenza di norme contro l’omosessualità è ritenuta condizione sufficiente, ma solo quando è possibile dimostrare la loro effettiva applicazione: così in Francia, Belgio, Regno Unito e Svezia. Non sempre, tuttavia, la prassi adottata è chiara, tanto che si registrano, per uno stesso Paese, decisioni opposte per richieste di asilo analoghe, come avvenuto in Portogallo, dove l’esistenza della criminalizzazione dell’omosessualità in Senegal è stata considerata decisiva e sufficiente in un caso, risoltosi positivamente con il riconoscimento di status di rifugiato, ma non in altri due, risultati in un diniego.

Un ulteriore punto sul quale le prassi divergono, riguarda le modalità di verifica della veridicità e della credibilità della richiesta presentata. Si pone quindi il problema non solo della ricostruzione delle vicende biografiche del/della richiedente, le cui testimonianze, rilasciate in forma scritta o orale, restano in generale la principale fonte di prove, ma anche del riconoscimento del suo reale orientamento sessuale. Informazioni a tal proposito possono essere ottenute, a seconda delle prassi in vigore, tramite domande specifiche sulle esperienze affettive e sessuali maturate nel corso della vita, sulle frequentazioni e sulla conoscenza della scena e della cultura LGBT del Paese d’origine, oppure tramite esami medici, su richiesta delle autorità (come in Bulgaria) o del diretto interessato (come in Germania). Purtroppo, in entrambi i casi, non sono mancati abusi e pratiche lesive della dignità umana dei richiedenti asilo, oltre che di dubbia efficacia. Ha destato scalpore, negli scorsi anni, la notizia, riportata dai media sia LGBT che mainstream, dei test fallometrici praticati in Repubblica Ceca e bocciati senza appello dall’Unione Europea (vedi Corriere della Sera). Quando invece l’indagine viene condotta sotto forma di intervista, non è raro il ricorso a domande umilianti sui dettagli delle pratiche sessuali compiute con i partner, così come giocano un ruolo spesso determinante stereotipi e pregiudizi che denotano una scarsa comprensione della realtà dell’omosessualità, specialmente per come è vissuta nei Paesi di provenienza degli interessati.

 

Italia: paese d’asilo?

Nulla di tutto questo in Italia, dove, da un lato, la semplice esistenza di norme punitive nei confronti dell’omosessualità, anche quando non applicate, è condizione sufficiente per l’ottenimento dello status di rifugiato, a fronte di una testimonianza credibile; dall’altro, una volta che le dichiarazioni rilasciate sono state ritenute attendibili, non è generalmente richiesta al/alla richiedente alcuna prova ulteriore del suo orientamento.

Grazie al lavoro di gruppi di volontari e operatori del settore sorti nel corso degli anni a Modena (per iniziativa di Giorgio dell’Amico, esperto nazionale in materia insieme all’avvocato Simone Rossi), Bologna, Milano, Palermo e Verona, è stato pertanto possibile accompagnare numerosi migranti LGBT nelle procedure di domanda d’asilo, spesso con esiti positivi. I casi trattati, che ammontano ormai ad un centinaio, riguardano, per la maggior parte, omosessuali maschi, probabilmente perché più visibili e agevolati negli spostamenti rispetto alle donne (che nelle società d’origine sono spesso confinate agli spazi domestici e dispongono di margini d’azione più limitati), anche se non sono mancati, naturalmente, casi di lesbiche e di transessuali (sia MtF che FtM). Fra le aree di provenienza, spiccano il Maghreb (Marocco e, in misura minore, Tunisia e Algeria) e l’Africa subsahariana, con un numero significativo di LGBT senegalesi. A seguire, l’Asia, con Iran e Pakistan in testa. In seguito all’approvazione della legge contro la cosiddetta “propaganda gay”, sono aumentati nel 2013 e nel 2014 i casi di richiedenti asilo originari della Federazione Russa, e non è difficile prevedere per i prossimi anni una conferma di questa tendenza, o addirittura un’estensione ad altre aree dell’Est Europa, specialmente se altri Stati un tempo appartenenti al blocco sovietico dovessero dotarsi di provvedimenti analoghi, come pare (purtroppo) probabile.

In ogni caso, l’esperienza accumulata in questi anni ha fatto sì che gli sportelli e i gruppi presenti nelle varie città d’Italia dispongano ormai degli strumenti necessari per accompagnare con successo i futuri richiedenti asilo. Allo stato attuale infatti, non sono più tanto le procedure per l’ottenimento dello status di rifugiato a porre le sfide maggiori, quanto la fase successiva dell’inserimento lavorativo e abitativo dei/delle migranti, senza contare, da un lato, le (ovvie) difficoltà di integrazione, e dall’altro i rapporti, spesso problematici, che i migranti LGBT intrattengono con i connazionali già presenti sul suolo italiano ed europeo e che potrebbero, una volta venuti a conoscenza della loro situazione, assumere atteggiamenti ostili nei loro confronti.

Numerosi sarebbero gli interventi possibili, per esempio tramite il progetto S.P.R.A.R. (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) oppure avviando servizi all’interno delle associazioni LGBT, come già avviene in varie parti d’Europa: basti pensare all’Olanda, dove il COC (Cultuur en Ontspanningscentrum, “Centro per la cultura e il tempo libero”) affianca i rifugiati nella scoperta delle città e nell’apprendimento della lingua, oppure al supporto fornito presso il Centro LGBT di Parigi dall’Ardhis (Association pour la reconnaissance des droits des personnes homosexuelles et transsexuelles à l’immigration et au séjour), che segue i migranti non solo nelle procedure di richiesta d’asilo ma anche nelle fasi di ricerca d’alloggio e di sussidi. Le associazioni possono soprattutto aiutare i migranti LGBT a crearsi degli spazi di socializzazione in un contesto più protetto, nonostante la stessa comunità omosessuale non sia, purtroppo, immune da fenomeni di razzismo ed esclusione.

 

Daniele Speziari
Sportello Migranti LGBT Verona

 

1. Sabine Jansen e Thomas Spijkerboer, Fleeing Homophobia. In fuga dall’omofobia: domande di protezione internazionale per orientamento sessuale e identità di genere in Europa, COC Nederland, Vrije Universiteit Amsterdam, settembre 2011.

 

© fotografia di Gabriele Zocche

2 Comments

  • carlo corbellari ha detto:

    ho letto con enorme interesse questo vostro articolo mandatomi dopo la mia iscrizione alla vostra newsletter. sono di verona e mi interesserebbe contattare lo sportello migranti glbt della città, per avere informazioni utili circa il comportamento da adottare se se si ha un rapporto amoroso con un uomo del Marocco o comunque di cultura islamica. per quanto riguarda l’italia siamo sempre con i piedi in due staffe e comunque concordo con l’analisi di speziari. grazie e a presto

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