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La mia consapevolezza di essere lesbica è antica. Ho vissuto in un paese di provincia, seppur vicino alla città: la borghese e salottiera Treviso, la città di “Signore e Signori”, una città chiusa e amministrata da uno Sceriffo verde. Non c’era niente e nessuno da cui avere risposte. Poi entrò il modem 56k in casa, e allora lì iniziai a cercare, a chiedere, ad inserirmi, timidamente, in gruppi virtuali, mailing list e chat. Per scoprire il mondo del lesbismo e il mondo lgbt in generale.

A Trieste, dove ho studiato, non volli entrare nei gruppi LGBT allora presenti. Mi ero lasciata male con la mia prima fiamma. E tenni un basso profilo anche all’università. Finché non arrivò questo primo gruppo informale, che divenne circolo Queerquilia, e poi divenne ArciLesbica Queerquilia, due anni più tardi. Ricoprii la carica di presidente del circolo misto prima, poi quella di ArciLesbica per altri 5 anni. Dal 2012 sono segretaria nazionale ArciLesbica. Ed ora sono al secondo mandato.

ArciLesbica è l’associazione che ho scelto. Una realtà in cui mi ritrovo, un luogo di donne e per donne, carico di femminismo, di politica, di passione. Un laboratorio, un luogo da abitare, una dimensione da vivere, ogni giorno. Io sono una persona orientata ai contesti, alla relazione autentica con l’altra persona, alla creazione di possibili realtà e possibili mondi abitabili, alla parità di dignità e diritti, all’azione politica intesa come reazione dal basso, a partire dal tessuto sociale con le sue intersezionalità e contraddizioni. Forse anche tutto questo mi ha portata a immergermi, mani e piedi, nell’impegno sociale e politico. A partire, credo proprio, dallo scoutismo: per me una palestra lunga più di un decennio, che oggi non rinnego, ma che ho chiuso, abbandonando anche ogni forma di religione.

Seppure la situazione sociale e politica attuale (fine 2015) sia disastrosa, io sono sicura della strada che ho intrapreso, come cittadina, donna, lesbica, professionista e militante appassionata. E riesco a fare tutto questo grazie a Francesca, anche lei militante di ArciLesbica e mia compagna dal lontano 2005. La nostra relazione ha avuto alti e bassi, anche per la mia estrema generosità verso l’attivismo. Dopo 10 anni abbiamo trovato un nostro equilibrio, tra le nostre passioni, l’impegno militante e la vita di coppia, sempre comunque coltivata, e con un amore che brucia ancora forte ed intenso.

Ho sempre avuto anche un certo supporto della mia famiglia, a seguito del mio coming out pubblico tramite tubo catodico, avvenuto a una conferenza stampa con uno stuolo di giornalisti e televisioni locali. E ho potuto sempre contare su grandi amicizie.
La rete sociale di cui faccio parte è forte e solida, e questo mi sostiene e mi sprona in ciò che faccio. Mi ha aiutata, e mi aiuta ancora. Sia nei successi, sia nelle difficoltà.

La militanza in una città di provincia ti obbliga ad essere creativa. Una realtà piccola e provinciale frena la possibilità di essere visibile. Siamo in un territorio quasi senza un punto di ritrovo per la comunità lgbt, anche che sia solo un bar che possa essere fruibile a lungo periodo. Abbiamo un’amministrazione che per vent’anni ha chiuso la città a qualunque tipo di contaminazione, con una lotta incessante contro gli stranieri, i diversi (persone LGBT in primis), fino ad arrivare agli artisti di strada. Una città che vivo ancora come fossimo in “Signore e Signori”, nonostante il registro per le unioni civili e l’ingresso nella rete Ready.
Ancora molto è da fare in tutta la provincia di Treviso. Importante è andare fuori le mura cittadine per incontrare e farsi comprendere. Per liberare e liberarsi.

Un ricordo che mi riempie di orgoglio è quando, come circolo, iniziammo in una libreria una serie di cicli di conferenze, con più di 100 spettatori ogni volta. Un grandissimo lavoro di tutte noi, che ci ha portate a riflettere, a condividere, a scontrarci. Ed il primo ciclo fu su “femminismo, lesbismo e transessualità”. Perché la voce delle donne e delle lesbiche, per noi, quando iniziammo, era tutto, e volevamo dichiararlo a gran voce.

L’attivismo LGBTQIA italiano è ricco e variegato. Abbiamo associazioni nazionali con i propri circoli o comitati, oppure con altre formule di coinvolgimento e visibilità nei territori, abbiamo associazioni locali che hanno più o meno influenza a livello nazionale, e associazioni territoriali che agiscono limitatamente entro confini più circoscritti. Senza contare i gruppi informali, i collettivi, e tutte le realtà intersezionali che danno il loro contributo politico e culturale, a livello locale e nazionale. Anime che si confrontano, che riescono, a volte, a portare avanti una politica in modo congiunto ed unitario. Altre volte no.

Il pensiero non è unitario tra le diverse associazioni, una stessa questione è indagata in modo differente, e ciò porta a posizioni che possono essere inconciliabili, fino allo scontro. Ciò potrebbe apparire come una debolezza dell’intero movimento che, così frammentato, non è capace di ottenere i diritti che ci spettano da almeno trent’anni. Dal mio punto di vista è un’opinione che riduce ed appiattisce il lavoro delle associazioni, senza considerare la responsabilità politica di chi ci governa. Credo che le associazioni LGBTQIA esistano per lavorare all’interno del tessuto sociale, avendo la possibilità di mutarne la cultura, e di rendere manifeste, anche in modo molto intenso e spiazzante, questioni che, altrimenti, sarebbero state taciute. Perché la parità dei diritti passa anche attraverso i luoghi che abitiamo, le persone che frequentiamo, la promozione di una educazione rispettosa delle differenze che permette di rigettare la cultura eterosessista e maschilista.

Abbiamo ancora tantissima tela su cui dipingere, abbiamo ancora tanto da dire e fare. Seppur con passione, a volte la stanchezza avanza. Forse complice anche la difficoltà di vedere i nostri diritti sempre negati.

 

Elena Toffolo