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Avete presente quando i giovani e le giovani omosessuali raccontano le difficoltà che hanno avuto a scuola? Quando parlano delle prese in giro dei compagni, tipicamente alla scuola media, e delle battutine anche di qualche insegnante? E degli stereotipi di genere imparati anche a scuola, fin dall’infanzia? Beh, io ho da tempo deciso che non voglio essere una di quegli insegnanti. E farò di tutto perché la mia scuola non sia una di quelle scuole, e i miei studenti non siano tra quegli studenti, né vittime né responsabili di battute, bullismo e frustrazioni varie di tipo omofobo.

Non sono una specialista, ma un’insegnante di liceo come tanti, che sente l’urgenza del problema e fa qualcosa di molto ordinario e quotidiano, non iniziative particolari. Penso che, accanto a interventi mirati sul tema, il comportamento quotidiano in classe abbia un grande peso educativo in questioni di razzismo, sessismo, omofobia.

Darò un solo esempio.
Noi/loro? Ho notato i pericoli della tendenza a raggruppare le persone in noi e loro. C’è sempre un noi a cui aggregarsi quando si ha bisogno di un booster della propria identità: noi donne, noi toscani, noi interisti, noi giovani, noi genitori… Ci si infila in definizioni di gruppi a volte senza la minima giustificazione, per sentirsi qualcuno, per acquistare a poco prezzo e senza merito una serie di caratteristiche identitarie che ci fanno sentire qualcuno. Brutto segno. Perché al di là del limite del noi c’è il loro, tutti gli altri sono loro, e non è mai un complimento. Beh, gli etero (noi etero) parlano dei gay come di loro, così come i bianchi dei neri, le donne degli uomini, gli insegnanti degli studenti.

Un educatore che parla di una categoria sociale come se nessuno dei presenti vi appartenesse dà già un segnale sbagliato. Parecchie volte, ma solo quando ho avuto prontezza di spirito, mi sono trovata a dichiararmi invece, anche mentendo, una di un qualche noi solitamente pensato come un loro, ottenendo un effettone. Per esempio, di fronte a battute sui gay mi è capitato di dire: «Beh, per rispetto a me che sono gay vi chiedo di non fare queste battute». Ottenendo scuse istantanee, spiazzamento in chi mi conosce e silenzi imbarazzati ma sufficienti a rovinare la festa a chi si aspettava una risata complice. Ma basta anche meno: mi è bastato dire: «vi chiedo di non fare queste battute per rispetto di quelli tra noi che sono gay». Questo funziona molto bene perché lascia l’incertezza, e la coscienza che dai, sì, in effetti ci sta benissimo che alcuni di noi siano gay, e decidere di procedere a un’offesa diretta è molto più difficile che lanciare lì una battutina generale.

Quando mi lancio in queste uscite sento che divento rossa per la timidezza, ma non importa; sento anche che posso farlo perché godo di un privilegio simile al white privilege in questioni di razzismo: non sono gay e quindi non ho paura, posso espormi al posto di colleghi o studenti veramente gay che possono avere timore a dichiararsi. In una prospettiva più radicale dovrei lasciar fare le lotte ai protagonisti legittimi, ma che diamine, mi viene spontaneo e mi viene bene, mi sa che lo rifarò se necessario.

 

Silvia Masotti, Pisa

One Comment

  • Cloe ha detto:

    Apprezzo gli spunti per un cambiamento della società a partire dalle piccole cose quotidiane.